Interviste Recensioni

CRISTINA NICO, INTERVISTA E RECENSIONE DE “L’EREMITA”

Scritto da Claudia Erba

Una personalissima recherche musicale che vive, uno tempore, di cupezza e nitore, improvvisazione e rigore formale

Io non ho bandiere da indossare.
Io vorrei saper dipingere i rumori del mondo,
comporre in un caleidoscopio di suoni e di colori tutta questa confusione.
Puoi chiamarla presunzione,
per me è solo la speranza di lasciare una traccia
sulla tela del tempo che avanza”
(da “Caleidoscòpia”)

Vincitrice del “Premio Bindi” nel 2014, Cristina Nico torna- dopo “Mandibole” (OrangeHomeRecords, 2014) con il sorprendente “L’eremita”(OrangeHomeRecords).
Il sound gotico-mediterraneo degli esordi conosce nell’album un’allettante evoluzione: versatilità ritmica ed un’orchestrazione eterogenea- non solo viola ed archi ma anche bouzouki e cümbüş , lap steel guitar e chitarra dodici corde- animano una personalissima recherche musicale che vive, uno tempore, di cupezza e nitore, improvvisazione e rigore formale.
Presenza costante e pervasiva le tessiture chitarristiche di Cristina Nico, che ha arrangiato l’album in sinergia con il produttore Raffaele Abbate, nel progetto anche ai synth, al pianoforte e alle percussioni.
Cristina Nico riesce nella complessa impresa di penetrare l’epidermide sclerotica delle cose, accedendo a ciò che non è afferrabile (Vorhanden, per dirla con Heidegger); all’intangibile e all’immateriale. Nella complessa rete delle geografie socio-culturali delle espressioni artistiche la cantautrice genovese rintraccia la scintilla, il brio del linguaggio, la vitalità dell’espressione.
L’eremita” coniuga, barthesianamente, studium intenzionale e punctum; quella sorta di folgorazione irrazionale e sottocutanea che conduce all’esperienza dell’ineffabile.
Così, con “Stranononè”, accompagnato dall’esperimento visivo di Gae Milazzo, Nico ci conduce nella sua personale chambre claire, nella quale sembra cogliersi “l’aria di un volto (…)il supplemento intrattabile dell’identità (…)il riflesso del valore di una vita(…), l’ombra luminosa che accompagna l’oggetto”.
Del resto la dicotomia antropologica dentro/fuori si rinviene in tutto l’album e, insieme a quella stranezza/normalità, è destinata a rimanere irrisolta, fagocitata dalla perpetua rinegoziazione dell’identità che appare legata a filo doppio alle nostre “vite liquide”.
Dal punto di vista prettamente musicale, anima da rockeuse e gusto mediterraneo convivono in “Tempi di pace”, che amalgama suggestioni mediorientali e fantasia bowiana, mentre il ritornello extrasistolico di “Disincantica “(“E intanto spolvero i miei idoli/conficcati fra le costole e il cuore”) e l’italianissima “La notte per ricominciare” sembrano rimandare, anche per la vocalità meravigliosamente rabbiosa di Nico, ai fasti mazziniani di “Attila”.
Particolarmente riuscita la title-track, nella quale l’attitudine avanguardista (fortemente presente anche in “Puer Aeternus”) diviene esplorazione dell’universo contaminante della world music.
Dalla sperimentazione etno- elettronica di “Marrakesession” alla vocazione noise che riaffiora ne “La donna di fuoco”e, a tratti, in “Funamboli”, passando per il grunge melodico di “Chi c’è”e per l’ibridante “Francesca”-una sorta di psichedelia sinfonica à laThe Moody Blues”- fino al minimalismo acustico, con finale a sorpresa, di “Caleidoscòpia”, Cristina Nico ci consegna un album icastico e seminale, ideologicamente percussivo. Molto più che “una traccia sulla tela del tempo che avanza”.

A proposito del brano “Stranonè” lei ha detto: “Da vicino nessuno è normale. Ma se ci guardiamo ancora più da vicino, dopo il primo effetto straniante, finiamo per riconoscerci negli sguardi e nelle espressioni degli altri, in un gioco di perdita e ritrovamento di sé.” Lo sguardo è, in senso sartriano, “un intermediario che mi rimanda a me stesso”?
In un certo senso sì, però la vedo in chiave un po’ meno individualista. Lo sguardo è un filtro e allo stesso tempo un tramite tra noi e il mondo esterno. Noi esseri umani abbiamo bisogno di riconoscerci negli altri e di essere riconosciuti dagli altri. Essere visti è il primo atto di conferma del nostro esserci al mondo. Le immagini che ha realizzato la mia amica e artista Gaetana Milazzo e che abbiamo utilizzato per il videoclip di “Stranonè” sono in tal senso un interessante esperimento visivo: forse all’inizio si prova un leggero disagio, come per un’eccessiva vicinanza di sguardi, poi si comincia a sorridere e cambiare espressioni insieme a quei volti…

Lo scorso 4 giugno è uscito il suo nuovo album, “L’Eremita” (OrangeHomeRecords). Calvino ha scritto che “La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista.” Mi sembra un concetto vicino a quello, ossimorico, di “eremita socievole”, da lei più volte citato…o sbaglio?
Sì, è un’ottima descrizione del “mio” eremita socievole, qualcuno che ha compreso la necessità di fare un percorso di conoscenza che è per forza di cose solitario, almeno a tratti. Qualcuno che a un certo punto prova una sorta di rigetto per certi riti, certi meccanismi della socialità che, anziché rafforzare il senso di unione e appartenenza, lo fanno sentire ancora più solo e quindi desideroso di non provare più nulla, di non avere bisogni. Ma alla fine resta nel mondo, o almeno molto vicino, perché nessuno può fare davvero a meno degli altri, dell’amore, della condivisione. E forse anche perché potrebbe esserci bisogno di lui, chissà…

Al suo ultimo album ha preso parte anche Sabrina Napoleone (synth e campionamenti ne “La donna di fuoco”, cori ne “L’eremita”), con la quale porta avanti, tra l’altro, svariati progetti cultural/musicali. Condivide con la cantautrice genovese anche la concezione della musica come veicolo di un linguaggio in grado di raccontare, potenzialmente, tutte le storie del mondo?
Condivido molte cose con Sabrina, tra queste l’organizzazione del “Lilith Festival della Musica d’Autrice”, che insieme a Valentina Amandolese portiamo avanti da ormai otto edizioni. Artisticamente entrambe proviamo a mandare avanti, ognuna col proprio stile, un lavoro sulla “parola cantata” che ci sta molto a cuore. La musica come linguaggio ha possibilità e declinazioni pressoché infinite, ma ha anche i suoi codici, per cui una buona canzone, anche la più prosaica e realistica, sarà tendenzialmente più vicina alla poesia che non a un articolo di giornale o a un libro d’inchiesta. Insomma, potenzialmente sì, in musica si può raccontare qualunque cosa, ma a patto che non si dimentichi la vocazione lirica di questo linguaggio.

Insieme alla poetessa Bettina Banchini ha dato vita al duo “Les Électriques”, che propone uno spettacolo di musica e poesia. Cosa ne pensa dei c.d “poeti di Instagram”? Si tratta di “verniciature poetiche”o di poesia autentica?
Francamente ne so poco e nulla dei “poeti di Instagram”. Sto cercando di utilizzar di più questa piattaforma, ma non riesco ancora ad entrare nel suo linguaggio, nei suoi codici. Certo ha una vocazione visiva, in un certo senso più evocativa ed estetica di Facebook, che è diventato una sorta di flusso di coscienza individual/collettivo, qualcosa tra il lettino dello psicanalista, una bacheca di annunci e una lavanda gastrica…Però, o forse proprio per questo, mi ci muovo più a mio agio, rispetto a Instagram che probabilmente è più a misura degli adolescenti, quei “millennials” a cui io per questioni anagrafiche non appartengo di sicuro. Se rispondono all’estetica cui induce Instagram, immagino che questi nuovi poeti tenderanno a un linguaggio veloce, semplice, diretto. Non posso esprimer giudizi su qualcosa che non conosco, ma ci sarà qualcosa di buono e autentico; anche nelle scritte sui muri a volte si cela la poesia.

A livello prettamente di sonorità, “L’eremita” sembra presentare una maggiore complessità rispetto a quel “gotico-mediterraneo” che parte della critica aveva sentito in “Mandibole”…è una mia impressione?
In realtà mi sembra che rispetto a “Mandibole” le canzoni conservino maggiormente l’urgenza di quando le ho scritte e suonate le prime volte, prima che fossero incise, nonostante abbia lavorato e studiato parecchio per affinare le mie doti come musicista e abbia curato per la prima volta in maniera autonoma, seppure accogliendo alcuni spunti di Raffaele e Federico, le diverse parti di chitarra e basso. Da un punto di vista tecnico-produttivo, con Raffaele abbiamo evitato quel surplus di incisioni, sovraincisioni e aggiustamenti che a volte ci si concede in studio. Credo che l’idea di maggiore complessità sia dovuta alle differenti personalità creative che hanno dato il loro apporto a questo disco: Federico Lagomarsino, il batterista, ha grande sensibilità e una visione d’insieme; con lui avevamo già fatto una pre-produzione molto asciutta su quei pezzi che già suonavamo dal vivo in formazione voce-chitarra-batteria. Nel suo tocco c’è qualcosa di molto sixties e british, ma c’è anche dello swing, del funk e quando serve anche una bella “pacca” grunge-stoner. Roberto Zanisi è un esploratore musicale, un entusiasta e un curioso, un polistrumentista che sul mio disco ha suonato il bouzouki, il çumbuš (un banjo turco), la lap steel e la chitarra dodicicorde: si devono in buona parte a lui le sfumature blues e mediterranee, che dal vivo sono molto più presenti, fra l’altro. Osvaldo Loi ha suonato la viola e curato gli arrangiamenti degli archi ma è anche un creatore di musica elettronica, ha un eclettismo tale che per cui può passare da una parte super classica a una molto noisey. Raffaele Abbate, il produttore, ci ha messo i synth (e in un brano anche piano e percussioni): con lui ci siamo proposti un uso morbido e morigerato dell’elettronica, alla fine come musicista ha rispolverato il suo animo dark, con grande efficacia a mio parere, bilanciandosi bene con gli strumenti cordofoni che sono protagonisti in questo disco. Poi c’è l’ospitata di Sabrina Napoleone, che su “La donna di fuoco” ha messo dei campionamenti elettronici minimali un po’ trip-hop, di grande atmosfera. La cosa bella è stata che nessuno ha suonato parti scritte, ma quello che sentiva, e quando il disco è finito mi è parso che ognuno avesse dato voce a parti di me che da sola non avrei potuto esprimere, c’è stato un riconoscimento fortissimo.

Nell’epoca dei singoli “usa e getta” lei ci consegna, ancora una volta, un concept-album. All’attitudine sperimentale si accompagna in lei un’esigenza di sistematicità, in contrapposizione ad una equivoca concezione del postmoderno come condizione che deresponsabilizza l’artista?
Wow, che domanda articolata! Mah, forse il senso di responsabilità è una questione più personale che epocale…certo, io credo che nel momento in cui un artista chiede attenzione e ascolto, una qualche responsabilità debba pure prendersela. Però alcuni sentono la responsabilità di alleggerire, di far evadere, altri sentono quella di scavare nei lati più oscuri del personale e del collettivo e provare ad attuare almeno delle prese di coscienza, e finora mi sono sempre riconosciuta di più in questo bisogno. Come è stato un bisogno, un’esigenza, quella di pensare a un disco in quanto opera, non solo come un insieme di canzoni, ma come un lavoro che magari insiste in maniera anche un po’ ossessiva su alcune tematiche, alcune sensazioni, alcuni suoni, ma alla fine ha un suo svolgimento, un suo compimento. Un suo mondo, fatto di pieni e vuoti, di respiri e brevi apnee, di inquietudine e conforto, che chiede forse presuntuosamente di entrarci, di lasciarsi pervadere da una visione, la mia, che non è sempre molto rosea, ne sono consapevole. Ma cerco nel possibile di non esser autoreferenziale. Il mio eremita, appunto, è un tipo socievole, anche se nutre forse maggiore simpatia per chi si sente o viene additato come strano, o non sufficientemente normale, piuttosto che per chi si sente a suo agio, a posto in questo mondo.

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Claudia Erba

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