L’America sta passando un momento difficile, dal momento che i principi di eguaglianza e accoglienza che ha sempre posto a fondamento della sua democrazia, stanno traballando da un bel po’. È quindi anche logico che artisti con una certa sensibilità e del calibro di Alicia Keys, che si sente fra i portavoce della comunità afroamericana, decidano di raccontare questo malumore che serpeggia fra la propria gente, soprattutto “a livello della strada”.
La sua evoluzione come cantautrice è sempre stata costante. Sicuramente dai primi dischi è molto cresciuta e non ha mai fatto un disco uguale all’altro, cercando di volta in volta di salire un gradino più in alto. Anche con questo suo nuovo album, intitolato semplicemente “Here”, ha scelto un sound diverso, più essenziale sul piano della produzione, ma in realtà più complesso, sia in termini di linee melodiche (mai totalmente orecchiabili) sia per i temi trattati nei testi, per l’appunto prevalentemente sociali. Riguardo a quest’ultimo aspetto direi che ha deciso di ispirarsi alle radici black che portano dritti fino ai padri del soul, come Stevie Wonder (“Love’s in need of love today”), ma anche alla tradizione più recente legata all’hip hop della grandissima Lauryn Hill (riascoltarsi “Every ghetto, every city” per cogliere il parallelismo).
Parlavo prima di complessità perché, rispetto al predecessore “Girl on fire” del 2012, mancano dei veri e propri “ganci” radiofonici e i pezzi spesso sono più faticosi da seguire, soprattutto per il pubblico europeo che ha una certa difficoltà a identificarsi con un RnB più sanguigno. Eppure il risultato a mio avviso premia la scelta perché, se si ascolta questo disco con continuità, sembra veramente di passeggiare fra le vie di Harlem e respirare la stessa aria di quelle strade. Questo potere della musica di trasportare e far viaggiare con la mente può sembrare facile da ottenere, ma non lo è affatto. Così, quando ci si trova di fronte a canzoni corali come “Pawn it all” o al rap – accompagnato dalla sola chitarra acustica – di “Kill your mama” capisci che ci vuole talento per riuscirci e la magia si accende.
La summa di quanto detto sin d’ora è possibile riscontrarla, fra i vari brani, nel mantra ipnotico e amaro di “Illusion of bliss” che parla della difficoltà, da parte di ogni uomo e donna, di veder riconosciuta dal prossimo la propria persona e identità o, in generale, di essere aiutati dagli altri (“Won’somebody see me when I can’t see myself, won’t somebody listen before I need help. I’m sick of being judged, sick of being sick, tell me where is the love”).
La più bella canzone dell’album però è a mio avviso “Holy war” (nel finale) che pone l’accento sulla grande contraddizione dell’uomo moderno che da una parte giustifica le guerre ovunque e poi erige muri che dividono le persone, per il colore della pelle o per la sessualità, creando paure che imprigionano il cuore. La ricetta per Alicia Keys è un sogno da perseguire provando a invertire tutto: “What if sex was holy and war was obscene”.
L’unico rimpianto di “Here” alla fine resterà solo quello di non vedere nella track list anche la splendida “We are here”, pubblicata diversi mesi fa sul web ma, ci si consola facilmente perché resta comunque un grande disco, piuttosto notturno, che vuole essere ascoltato ancor più che sentito.
Mi sbilancio forse, ma sento già profumo di grammy.
Alicia Keys – Here
Se si ascolta questo disco con continuità, sembra veramente di passeggiare fra le vie di Harlem e respirare la stessa aria di quelle strade