Interviste

Agnese Valle

Scritto da Claudia Erba

Il progetto artistico di Agnese Valle sembra essere davvero “un système où tout se tient”, governato da metriche emozionali

In attesa dell’imminente debutto romano del progetto teatrale di cui l’album “I miei uomini” (Maremmano Records/Ird) è parte integrante, abbiamo incontrato la cantautrice e clarinettista romana Agnese Valle. Da Tenco a Morgan, da Renato Zero a Brunori Sas, passando per Guccini,  Appino, De Gregori e Dalla (cui si aggiunge l’inedito “La fioraia”, scritto per lei da Pino Marino), “I miei uomini” non vuole essere un disco di cover: filtrate da una diversa sensibilità – esito anche della traslazione di genere-le narrazioni originarie vengono ristrutturate, per usare una simbologia cara all’autrice, e restituite a nuova vita.
Agnese Valle dilata a dismisura l’atto dell’interpretare; ne fa voluto spostamento del baricentro espressivo dei brani, abbinando all’interiorizzazione di luoghi simbolici il loro ripensamento e l’edificazione di un immaginario inedito, fortemente autoriale.
Nel concept album le didascalie che precedono le tracce (“Pezzi di ricambio”, “La scelta”, “Salto nel buio”) diventano sentinelle di un mosaico teatrale costruito nell’arco di un decennio, a partire da quel primo tassello predittivo che è la rilettura di “Io e te” di Jannacci. Ecco che il progetto artistico di Agnese Valle sembra essere davvero “un système où tout se tient”, governato da metriche emozionali, con una precisione-insieme-matematica e vertiginosa.

A dieci anni dall’ultimo lavoro, “Anche oggi piove forte” , che conteneva un brano di Jannacci e inaugurava la tradizione di inserire nei suoi dischi canzoni nate “al maschile”, torna con “I miei uomini”. E’ una quadratura del cerchio?
Sì, si tratta senza dubbio di una quadratura del cerchio. In tutti i precedenti lavori in studio ho sempre integrato alla narrazione delle canzoni originali un episodio da interprete e, anche i quei casi, i brani scelti erano tratti da repertori di autorialità maschile. Spesso è accaduto che la scelta dei brani da reinterpretare fosse talmente pertinente e credibile che fossero anch’essi scambiati per mie composizioni. Questo per me è stato molto gratificante perché ha significato tracciare una linea di continuità e di autenticità della narrazione delle storie (perché in fondo questo sono le canzoni) indipendentemente da chi le avesse scritte, immaginate o vissute. Ho pensato quindi di festeggiare i miei dieci anni di dischi con una novità, un album a mio nome che mi vedesse interprete di brani editi e di un inedito firmati da uomini.

Il disco è parte integrante di uno spettacolo teatrale. Vuole raccontarci qualcosa di più?
Il disco nasce già con un copione affiancato. E’ un canovaccio e una colonna sonora allo stesso tempo. E’ un compendio alla narrazione in forma di monologo. Nell’album sono raccolte nove canzoni e due momenti musicali, un intro e un outro, che corrispondono al “Chi è di scena” e al momento del “Sipario”. Questi sono rimasti effettivamente i loro titoli che non soltanto danno un nome alla composizione ma ne definiscono il ruolo in relazione alla scena. Le nove canzoni sono tutte canzoni scritte e interpretate da uomini, “i miei uomini”, coloro che hanno segnato la mia vita di ascoltatrice e mi hanno fornito dei modelli di scrittura e d’ispirazione per quella da cantautrice. Il criterio con cui ho scelto le canzoni dai vari repertori è stato quello di tracciare una narrazione unitaria, non una compilation ma un racconto a capitoli. Nel periodo in cui stavo strutturando questo progetto mi sono resa conto che la maggior parte della produzione musicale ha l’amore come movente principale. Così ho deciso di raccontarlo, approfondendo i vari aspetti di questo sentimento enorme e dalle mille sfaccettature. E ad ogni brano corrispondeva una riflessione, o un ricordo, o un incontro più o meno avvenuto nella realtà ed è cresciuta una storia, di cui stavolta, io sono autrice. Lo spettacolo debutterà a Roma il 23 Maggio.

La sua “Come la punta del mio dito” – scritta a quattro mani con Pino Marino – è, a detta dei giurati della Targa Tenco, una delle cinque più belle canzoni del 2018; il suo ultimo lavoro contiene un inedito dello stesso autore, La Fioraia. C’è, con l’autore di “Non bastano i fiori” una particolare consonanza?
Con Pino Marino ci siamo conosciuti a seguito di un soundcheck al Teatro Valle di Roma. Lui entrò in platea e assistette alle prove, credo fosse il 2011. Lui non conosceva me e la mia voce, io invece già conoscevo i suoi dischi. I miei dischi invece, intendo quelli a mio nome, ancora non esistevano. Quel giorno ero in scena con L’Orchestra del 41°Parallelo.
Insomma da lì in poi ci siamo rincorsi, abbiamo provato negli anni a immaginare palchi condivisi, poi ci siamo persi, è iniziata la mia attività da cantautrice e dopo un po’ di anni è arrivata “Come la punta del mio dito”. Credo che sebbene la consonanza, come la chiama lei, esistesse già da tempo, e già nel modo in cui mi riconoscevo nella sua musica fosse evidente una somiglianza, il momento in cui abbiamo iniziato a collaborare sia stato quello giusto. Per essere interprete in un modo “nuovo” dovevo necessariamente passare da un periodo di definizione della me cantautrice. Grazie a quel periodo in solitaria sono riuscita a mettermi a completa disposizione e vestire una narrazione altrui.

A proposito de “I miei uomini” il produttore Fabrizio Fratepietro ha dichiarato: La sfida è stata quella di decontestualizzarli e attualizzarli rendendoli coerenti con la poetica e le sonorità che appartengono alla produzione originale di Agnese. Da cantautrice, non pensa che l’attualizzazione, nell’azzeramento della dialettica (non sempre “pacifica”) tra l’orizzonte dell’opera e quello del destinatario, sia un po’ un tradimento dell’autenticità dell’opera originale? In altre parole, una regia d’opera attualizzante (intesa in questo senso come adattamento degli originali alle sue sonorità e alla sua poetica) non rischia di “disinnescare l’opera”?
Credo che il reale tradimento che si possa infliggere ad un’opera sia renderla inefficace. Chi può nella sua reinterpretazione essere ugualmente o più efficace del proprio autore, soprattutto usando i suoi stessi parametri e tentando di ricalcarne pedissequamente ogni aspetto? La risposta è nessuno perché così com’è, quell’opera esiste già. Sarebbero tutti una brutta copia dell’originale semplicemente perché l’originale non sono. C’è chi lo fa, ci sono le cover band, tribute band, “tale e quale show” o, volendo spostarci in altri ambiti, ci sono pittori a Piazza Navona per esempio, che fanno riproduzioni low cost dei girasoli di Van Gogh.
A me non interessava questo. Non volevo fare un disco di cover, volevo raccontare una storia e farlo a modo mio. Mi interessava dare un nuovo immaginario a quelle canzoni, non migliore né peggiore, semplicemente diverso. In qualche modo possiamo dire che io mi sia appropriata dei brani di altri e che li abbia trattati come fossero i miei.

 Cavalcando l’attuale questione della linguistica contemporanea che vede cambiare il significato delle cose se declinate al maschile o al femminile – spiega la cantautrice – nel titolo faccio mia una locuzione solitamente pronunciata dagli uomini in termini di possesso e la utilizzo invece per tracciare un’appartenenza emotiva. Così come nel disco alcune parole (ma non tutte) cambiano desinenza, lo sguardo e la vocalità femminile generano nuove narrazioni- ha dichiarato a proposito de” I miei uomini”. Una presa di coscienza a livello linguistico può secondo lei innescare un cambiamento anche sul piano sociale?
Non so se sia nato prima l’uovo o la gallina e devo dire che in ambito linguistico non ho ancora trovato una posizione pacificatoria. Detesto gli estremismi, per quanto ne riconosca spesso l’efficacia sovversiva; mal sopporto gli asterischi, simbolo di una sospensione ancora senza forma. Non credo nella forma estetica che tradisce la sostanza. Credo tuttavia nella misura e nel non avvilimento di nessuno dei due aspetti. La forma è il contenitore, è il corpo che veicola e muove la sostanza e credo che i due aspetti siano da considerarsi paralleli nel loro procedere. La lingua è in mutamento perché il mondo è in movimento. La lingua racconta il presente e in un presente mutevole, cambia anche lei. Non credo sia necessario rinnegare una lingua in cui (per fare un esempio) alcuni mestieri erano declinati soltanto al maschile e questo perché nell’epoca di riferimento probabilmente quelle professioni non venivano ricoperte da donne, ma principalmente da uomini. Mia madre, laureatasi all’inizio degli anni ’80 in medicina ha fatto il chirurgo per una vita; oggi avrebbe giustamente fatto la chirurga perché la professione si è andata sempre più ad aprire a posizioni al femminile. E’ giusto quindi coniare un termine, un nuovo nome, una declinazione che comprenda questo cambiamento.
In poche parole, credo che la lingua sia espressione del tempo a cui si riferisce, che descriva oggetti che in tempi lontani non esistevano e sia prova di un’internazionalità che prevede alcuni termini presi in prestito da altri idiomi; la lingua è capitalista. Accettiamo quotidianamente tutto questo dall’evoluzione linguistica, perché non renderla descrizione o perché no, vessillo di un cambiamento sociale? Basta solo farci un po’ l’orecchio…

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Claudia Erba

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