“Il legame che stringemmo si basava su un tacito impegno alla comune sopravvivenza. Abbracciava la storia, cavalcava i continenti, attraversava le guerre, e conteneva le nostre tragedie e le nostre vittorie collettive e individuali. Era un legame fatto di lettere adolescenziali, di pentole di foglie di vite ripiene. Era la Palestina. Era una lingua che smantellammo per costruirci una casa.”
Amal ha un fucile puntato addosso. È il 2002 e siamo a Jenin, campo profughi palestinese. Il soldato è israeliano. Amal ha la cittadinanza americana. Buoni e cattivi. La prima linea di demarcazione sembra essere tracciata. Poi flashback. Sono gli anni ‘40. La famiglia Abulheja vive serena nel suo villaggio in Palestina.
“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.”
Finché non arrivano le forze israeliane con tutto il loro carico di distruzione. La terra confiscata e la famiglia costretta a fuggire nel campo profughi di Jenin.
“Ma nel nostro campo la sua storia era la storia di tutti, un unico racconto fatto di espropriazione, dell’essere denudati della propria umanità, essere buttati come spazzatura in campi profughi indegni dei topi. Dell’essere lasciati senza diritti, senza casa né nazione, mentre il mondo si voltava dall’altra parte a guardare e ad applaudire l’esultanza degli usurpatori che proclamavano il nuovo stato che chiamavano Israele.”
Qui nasce Amal. Ultima di tre figli, straniera nella sua terra. Attraverso quegli occhi innocenti di bambina viviamo la sua infanzia spensierata, nonostante tutto. Ma davvero tutto. Il padre scomparso, la madre emotivamente pietrificata, il fratello ribelle e l’amicizia con Huda. Sembra essere “solo” una storia di esilio, poi il collegio a Gerusalemme.
“Ho sempre trovato difficile non commuovermi alla vista di Gerusalemme, anche quando la odiavo – e Dio sa quanto l’ho odiata, per il suo immenso costo di vite umane. Ma la sua visione, da lontano o da dentro il labirinto delle mura, mi trasmette sempre un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la circondano. I glorificati e i condannati hanno lasciato le loro impronte sulla sua sabbia. È stata conquistata, distrutta e ricostruita così tante volte che le pietre sembrano possedere una vita donata loro dagli eterni bilanci di preghiere e sangue. Eppure, in qualche modo, Gerusalemme trasmette umiltà.”
La borsa di studio per gli Stati Uniti.
“Attutii ogni sensibilità verso il mondo, nascondendomi in una nicchia americana senza passato. Per la prima volta, vivevo senza minacce e senza i sedimenti della guerra. Vivevo libera da soldati, libera da sogni ereditati da altri e da martiri che mi tiravano per le mani.”
Lasciare alle spalle la propria storia e tutto quel dolore che le è entrato nel sangue. Sotto la pelle.
Amal ora è Amy. Cambiano i sogni, cambiano le preoccupazioni. Ma la vita le ha insegnato che in un attimo tutto può cambiare. Un susseguirsi di avvenimenti. Il ritorno nella sua terra, il ricongiungimento con il fratello, e di nuovo negli Stati Uniti con in grembo una vita. Proprio lì un incontro che la porterà a tornare con la figlia a Jenin, a chiudere il cerchio e tornare al punto di partenza.
Guerre, occupazioni, disperazione. Ma anche speranza, amore e cura.
“ È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.”
Il racconto della guerra si intreccia sempre più profondamente alla storia di Amal, che -nata e cresciuta a Jenin- ne rappresenta il cuore pulsante. Sono i suoi occhi a permetterci di vedere. Viviamo con lei una vita fatta di perdite ed esilio, in continua lotta per costruire un altrove possibile senza per questo dimenticare le proprie radici.
“Sono figlia di questa terra, e Gerusalemme mi rassicura di questo titolo inalienabile molto più degli atti di proprietà ingialliti, dei registri catastali ottomani, delle chiavi di ferro delle nostre case rubate, di tutte le risoluzioni o i decreti che potranno emanare l’Onu o le superpotenze.”
Gli occhi però non sono solo i suoi. Ci sono quelli del fratello ribelle Yousef, o di David il soldato israeliano. Diversi i punti di vista sulla questione Israelo-Palestinese, perché diverso è l’approccio di Abulhawa.
L’autrice ci riporta la Memoria di due popoli. Due popoli alla ricerca della propria identità territoriale. Memoria che valica la Storia. Memoria che tocca nel profondo chi come noi si rintana in un angolo del mondo e chiude fuori il rumore dei conflitti sostenuti e portati avanti da chi invece vive in pace.
Un romanzo intenso e commovente, la storia della famiglia palestinese Abulheja attraverso quattro generazioni e decenni di conflitto. Un storia emozionante e vivida come la denuncia che ne esce, il tentativo di restituire dignità e umanità a un popolo che troppo spesso è rappresentato solo dal numero dei suoi morti.
“La durezza trovò un terreno fertile nei cuori dei palestinesi e i germi della resistenza si radicarono nella loro pelle.”
Come ogni storia i temi sono universali: l’identità, la perdita, la resistenza, l’amore. La questione palestinese ci viene presentata in tutta la sua complessità politica e umana, senza per questo fare manifesto. Siamo portati naturalmente a riflettere sul significato più intimo di casa, famiglia, memoria, umanità che sono alla base di questo e di ogni conflitto in generale.
Storia e finzione si mescolano, ci travolgono e aprono il nostro sguardo su una delle realtà più controverse del nostro tempo.
Lo stile di Susan Abulhawa è poetico e viscerale, l’autrice alterna abilmente la dolcezza di alcuni momenti della narrazione alla brutalità cruenta del conflitto. Siamo immersi, travolti dalle emozioni dei personaggi e dagli eventi che si susseguono. Tocchiamo il dolore della guerra e contemporaneamente siamo rapiti dalla bellezza di queste esistenze e resistenze.
Non possiamo restare indifferenti. Forse potevamo farlo prima di questo romanzo, solo perché si tratta di una realtà poco conosciuta e altrettanto poco compresa. Ora no. La finestra che Susan Abulhawa ha spalancato apre il nostro sguardo e richiama la necessità dell’empatia per una storia umana, in cui il dolore che passa attraverso l’uomo è dolore collettivo. Amplificato. È successo, sta succedendo e purtroppo succederà ancora. Questo il triste eterno ritorno della Storia.
L’unica cura, l’unica strada percorribile anche qui anche in questo caso è l’amore. L’amore che porta alla pace.
“L’amore è tutto ciò che siamo, mio caro.”