Il pulmino di SOund36 ha incontrato Stefano Frollano, un bravissimo chitarrista, cantante e autore italiano con un grande amore per la California. In questa bella intervista ci parla molto di sè e delle sue grandi passioni con un amore per le cose che fa e per le persone che lo circondano che riesce ad andare oltre le parole, il significato arriva forte e chiaro proprio come la sua musica.
Quando comincia il tuo amore per la California?
Esattamente nel 1976 sui banchi di scuola. C’era un amico, che poi sarebbe diventato un discografico , giornalista e dj più avanti nella sua vita, che utilizzava il suo diario scolastico per incollarci letteralmente ritagli presi dai vari magazines dell’epoca (Ciao 2001 su tutti)..e così iniziai a leggere articoli e recensioni che riguardavano i dischi del passato ma anche quelli di quel periodo storico, gli anni 70. Mi rimasero nella testa quattro sigle C.S.N.&Y gli chiesi che tipo di musica facevano, lui cercò di spiegarmi qualcosa ma furono poi gli acquisti del vinile a darmi l’idea che stavo scoprendo, in tutti i sensi, la “California”.
Malgrado il sound della West Coast fosse stato soppiantatato da altre cose continuavo a suonare le canzoni di Crosby, di Young, degli America, di Jackson Browne ma soprattutto erano gli ideali che quegli artisti avevano portato avanti alla fine dei ’60 e agli inizi dei 70 che mi attraevano. La musica prodotta in quegli anni, basata sulle armonie vocali e l’uso delle chitarre acustiche, era anche legata al sociale e al politico dove gli intenti, ancora non condizionati come oggi dalla macchina del business, seppur presente, erano rivolti alla trasformazione dei rapporti tra gli essere umani. Si cercava di far convivere tutti gli ideali di pace, amore, fratellanza che molti avevano cercato di uccidere, di cancellare. Gli assassini dei vari Kennedy, King, la banda di quel malato di mente di Charles Manson che fece la strage alla villa di Roman Polanski uccidendo tra le altre persone l’attrice Sharon Tate, furono eventi che “minarono” quella atmosfera di “good vibrations” che si era creata in quell’area e che si era divulgata in tutto il mondo. La stagione dei fiori, il Festival di Monterey; questi raduni oceanici alimentarono le speranze dei giovani che credevano che anche la musica avrebbe potuto cambiare il mondo. Purtroppo la violenza, il sistema americano, la CIA e tutto il resto non fecero che sollecitare negativamente il clima, e le contestazioni aumentarono. Non senza gravissime conseguenze. Proprio Neil Young scrisse “Ohio” per attaccare il sistema di Nixon e per ricordare quei quattro innocenti studenti universitari uccisi dalle pallottole della Guardia Nazionale durante una manifestazione pacifica dove i giovani protestavano per l’invasione della Cambogia da parte degli USA. Ma, a parte queste notazioni storiche ed importanti, è stato senz’altro il “suono” delle voci e delle chitarre ad attrarmi principalmente.
La scoperta delle accordature “aperte” mi ha aperto un mondo, soprattutto perché venivo dalla “classica”. Scoprire di volta in volta canzoni e accordature, significava rimettere in gioco, o meglio, mettere momentaneamente da parte, tutto quello che faticosamente avevi imparato fino a quel momento. Era ogni volta incuriosirsi. Il senso della novità era dietro ogni angolo. Era reale. Soprattutto con artisti come Crosby o Joni Mitchell. Ma resta difficile parlare di sensazioni legate ad un suono di chitarra che puo’ farti immaginare te stesso certe volte in altri luoghi, in altre dimensioni. Forse in un “non luogo”come forse era la West Coast, la California, che era un’idea più che una regione americana. Un “non luogo”. Uno stato d’animo, una presa di posizione politica, sociale. Un movimento, una nascita. Una voglia di scoprire, un territorio virtuale da poter esplorare anche a distanza di centinaia di miglia di chilometri. Una emozione racchiusa in un solco di vinile ma capace di farti vibrare. Che ti scuoteva quando avevi l’anima lacerata. O quando pensavi che solo l’amore poteva spezzarti il cuore.
Nel tuo cammino hai conosciuto grandi artisti, cosa ti hanno insegnato?
Ho conosciuto Crosby Stills, Nash & Young e tante altre persone del loro entourage fino ad arrivare a James Raymond, il figlio naturale di David Crosby e a Jeff Pevar, chitarrista per qualche anno con i due sopracitati e già session man per nomi come Ray Charles, Rickie Lee Jones, Marc Cohn, Joe Cocker e altre decine di gruppi e artisti di fama internazionale. Se dovessi riassumere brevemente qualcosa potrei dirti che per una buona parte della mia adolescenza certi artisti mi hanno insegnato a vedere la vita sotto tanti punti di vista. Leggere i testi delle loro canzoni mi ha aiutato non poco in certe fasi adolescenziali. Erano una direzione da seguire certe volte. Parlavano di pace, amore, di problemi personali nei quali trovavo delle corrispondenze. Era pura poesia. Ho consumato i loro dischi e il mio modo di suonare la chitarra deriva anche da quello loro.
Un’altra cosa che mi hanno sempre comunicato è stata quella di non mollare mai e di continuare a credere in quegli ideali che per anni hanno portato avanti nei loro concerti e nei loro dischi. Non ho certamente la loro statura artistica ma ti assicuro che credo fermamente, come diceva Gandhi, che se vogliamo che il mondo cambi, dobbiamo essere noi, in primis, la trasformazione. E questa idea da seguire era proprio in “quella” California musicale che tentò sempre di avvicinarsi ai giovani per garantire che la musica potesse veicolare o comunicare un cambiamento.
Ti sei esibito tantissime volte, che significato ha il live per te?
Il live è un momento dove le energie di tutti i protagonisti si incrociano creando una atmosfera. Il suono di questo risultato è assolutamente affascinante perché è determinato dal rapporto che si instaura tra il pubblico e gli artisti. E’ intrigante l’idea che gli artisti diventino pubblico e il pubblico possa diventare artista. Tutti concorrono ad una trasformazione, e il rapporto che ogni persona ha con le canzoni, dal vivo, viene assolutamente mutuato da una serie di fattori emozionali. Questo “ensemble”, nella sua complessità è un microcosmo unico ed ogni volta si “rivela” in modo diverso. Mi piace pensare che tutti stanno vivendo in un sogno. Ed è per questo che da un punto di vista estremamente musicale il risultato è assolutamente diverso da quello che si ottiene in studio. A parità di canzoni e strumentazione, il risultato è totalmente diverso. Suonare dal vivo è ogni volta creare cose diverse. Sta poi a tutti i protagonisti cercare di conservarle “giù nel profondo”. Soprattutto i musicisti, se non riescono a fare questo lavoro di ricerca, rischiano di far diventare, il “live”, che è un’esperienza unica, una banale ripetizione, un giro di mulini e basta. Si diventa così, mestieranti. E questo non ha nulla a che vedere con l’arte e la creatività da mettere in gioco.
Proprio all’interno della West Coast c’ è il caso di un gruppo che è nella storia da quarant’anni. Ottimi strumentisti , senza dubbio, conoscono il business e sanno come creare degli hits. Ho assistito a due concerti loro a distanza di qualche anno. Ti assicuro che in tutti e due i casi, dopo tre ore di concerto, non era successo assolutamente nulla. Esecuzioni impeccabili, al millimetro, assoli di chitarra eseguiti in maniera identica a quelli registrati in studio. Avevano portato a farci sentire e vedere quello che avevano combinato in studio in tanti anni di carriera. Noiosi. Il “live” è una delle dimensioni del musicista, dell’essere umano artista, creativo. Deve essere diverso. Non un momento per “replicare”.
Arriviamo a Sense Of You, come nasce? C’è un’idea comune che lega le canzoni dell’album?
L’idea che lega le canzoni dell’album è il rapporto uomo-donna. Il disco nacque in questo modo. Avevo solo un paio di canzoni che avevo scritto prima del missaggio del mio primo lavoro solista, “SF”. Eravamo nel 2005, 2006. Il lavoro di scrittura proseguì nel 2007 e e si concluse nel 2008. L’idea era quella di tentare di scrivere qualcosa che riguardasse l’immagine femminile e che la eventuale presenza di queste voci nel disco potesse “aiutarmi” a cercare di sviluppare di più i testi e le parti musicali in maniera diversa dal passato. Così, con questo tipo di progetto, dove la presenza della donna sarebbe stata più evidente, iniziai a comporre un po’ di cose e agli inizi del 2008 mi ritrovai con più di dieci canzoni. Ne scartai un paio che in realtà mi avrebbero allontanato leggermente dall’idea originale e dopo aver fatto un demo e un po’ di pre-produzione iniziai a registrare le basi per un album che di lì a poco avrebbe trovato il suo titolo, Sense Of You, appunto. C’è un senso di te, Donna. Un senso di te nelle cose che facciamo e diciamo, nelle cose che scrivo e che penso, nei gesti del quotidiano e nei sogni la notte. Nella fantasia che vedo nel tuo volto e nelle invisibili risposte che mi dai. Ecco, una ricerca volta verso un’immagine femminile che deve corrispondermi (e viceversa nel caso al contrario) e che ho tentato di raccontare nelle canzoni dell’album. I brani parlano di storie finite, altre di speranza, altre basate sulla volontà e la voglia di non voler perdere mai l’altro; di recuperare l’affettività per ritrovare quell’immagine perduta.
Una canzone su tutte, Hello!, forse, è quella che potrebbe rappresentare al meglio questa idea. C’è un costante dialogo all’interno dell’intero disco che viene sviscerato, sviluppato, cantato, interpretato, tra l’immagine maschile e quella femminile. Esse si rincorrono all’interno dei brani. La voce femminile certe volte irrompe, altre volte dialoga, in altre è solo colore. Ho tentato di far capire alle bravissime cantanti che mi hanno aiutato cosa stava succedendo all’interno di ogni canzone. E devo dirti che non è stato nemmeno facile trovare le persone giuste perché la mia esigenza non era solo semplicemente legata al racconto delle parole scritte e alla loro interpretazione. Era un lavoro da mosaico dove ogni interprete femminile doveva essere nel brano che le corrispondeva, sia da un punto di vista musicale, sia da quello timbrico, direttamente in consonanza con le sonorità della canzone stessa, sia da quello propriamente personale e legato al temperamento di ognuna di loro.
Laura Visconti tecnicamente avrebbe potuto cantare oltre a quello dove è ospite anche altri brani dell’album e, viceversa, anche le altre musiciste, ma l’idea era che ogni voce doveva stare all’interno di un racconto o di una vicenda per poter esprimere o scatenare una serie di suggestioni.
Chiara De Nardis è solo colore e il riff vocale che canta, con il suo timbro così involontariamente sognante ed etereo non poteva non essere dentro in Chagall’s Song, dove un quadro del celebre pittore russo fa da sfondo alla storia di due amanti.
E così Paola Casella che interpreta con me The Dance dove la passione per la black music esce fuori allo scoperto e Daria Venuto, presente in due brani decisamente rock come il suo carattere e Gabriella Paravati, indimenticabile voce che rende unica la chiusura dell’album con la sua personalissima e sofferta interpretazione.
E’ stata una bella ricerca e spero che possa piacere anche a voi. E’ stato un lavoro che ha coinvolto tante persone e in primis Marco Vannozzi, che assieme a me e Marco Polizzi, hanno supervisionato l’intera realizzazione. Non voglio dimenticare nessuno e citerei a questo punto Raymond e Pevar dalla backing band di Crosby Stills e Nash che hanno apportato la loro immensa esperienza e bravura all’interno del disco. Incredibili. Giuliana De Donno che ha riarrangiato all’arpa il brano Northern Lights una delle canzoni più trasmesse in Nord Europa fino a qualche mese fa. Massimo Cusato alle percussioni che l’ha accompagnata. E poi ancora Luca Scorziello, percussionista di fama internazionale, così come il batterista Francesco Isola e il bravissimo Franco Piana alla tromba e al flicorno e in ultimo ma non meno importante, Pierluigi Campili alle tastiere che ha lavorato anche per l’editing e quindi per la post produzione dell’album, che lo ricordo, è uscito per Terre Sommerse.
A parte suonare e comporre musica hai anche scritto dei libri di argomento musicale, ci parli di questo aspetto?
Certamente. Ho pubblicato un po’ di libri negli anni sui miei musicisti preferiti. C.S.N.&Y. In Italia per i tipi dell’Arcana curai la discografia di Neil Young per la serie “Manuali Rock” . Il volume uscì nel 1992. Poi ho pubblicato per la Gopher Publishers nel 2002 un’opera omnia assieme ad altri autori appassionati come me (Francesco Lucarelli, Herman Verbeke e Lucien van Diggelen) sul mitico quartetto. Uscirono due versioni, una in lingua olandese e l’altra in inglese. E’ un box di tre volumi di oltre 1000 pagine, con foto e poster, locandine, memorabilia e altro. Una sorta di enciclopedia sul quartetto che gli stessi musicisti hanno apprezzato davvero tanto.
Proprio in queste settimane stiamo discutendo con Graham Nash se pubblicare una versione ridotta ma aggiornata di questo progetto che all’epoca chiudemmo dopo otto anni di lavoro. Lo presentammo a Londra nella più importante libreria del mondo dedicata alla letteratura musicale, Helter Skelter. E ancora nel 2006 per la Coniglio Editore ho scritto un libro di oltre trecento pagine su Neil Young e insieme al giornalista Salvatore Esposito ho pubblicato un piccolo volume dedicato a Crosby Stills & Nash uscito per Editori Riuniti nel 2007.
Ora invece sto raccogliendo materiale per lavorare su un artista che è completamente all’opposto rispetto alle mie passioni giovanili. Un artista assolutamente innovativo che amo molto, David Sylvian. E’ un progetto importante che sto affrontando con calma e che spero di poter pubblicare quanto prima.