Interviste

Nicola Pisu, Intervista

Scritto da Claudia Erba

Pisu si muove in direzione ostinata e contraria, verso quelle storie in forma di canzone che sono la sua cifra più significativa, spirituali e terrigne come preghiere laiche.
“non c’è dolo nella purezza, nessuna ambiguità”
(Grazia Deledda)

Il mugnaio suicida che con le mani stringeva la fune /in verità pensava a un sogno comune; Nineddu, chino sul libro della vita/ come un tesoro nella memoria, Aisha, che aspetta un treno che la porti in fabbrica /con la fatica nelle gambe e un cielo che quasi nevica; Barba Bianca, che farfuglia fra sé e non gli frega/ tanto a qualcuno, lo sa, i sogni avvera: sono solo alcuni degli indelebili personaggi che popolano la Comédie humaine di Nicola Pisu, affresco autentico di un’umanità senza tempo, in perenne tensione tra visceralità ancestrale e moderna favola metropolitana.
Pisu-classe 1973, quattro album all’attivo-torna a far sentire la sua voce con “Nel cielo sia”, singolo liberamente tratto da “Quasi Grazia” di Marcello Fois, in cui la madre della scrittrice nuorese si fa emblema della Grande Madre Sarda, nutrice/ accentratrice che accarezza e percuote in un unico-insondabile- gesto. Nel canzoniere del cantautore di Serrenti si realizza un’ anatomia simbiotica di parola e tessuto sonoro, che alterna sliricizzazione e inserti di versificazione tradizionale, parlato popolare e citazionismo colto. Immune dai furori didascalici di certo cantautorato engagé, Pisu si muove in direzione ostinata e contraria, verso quelle storie in forma di canzone che sono la sua cifra più significativa, spirituali e terrigne come preghiere laiche.

Il suo ultimo singolo,“Nel cielo sia”, è liberamente ispirato a “Quasi Grazia” di Marcello Fois. Nel loro dialogo immaginario, la madre dice a Grazia Deledda: “Sempre con questa storia di vero e falso: le cose c’hanno un loro senso, cosa c’entra la verità adesso? guarda che una cosa sono le cose come le scrivi tu, e una cosa le storie come succedono”. Si sente maggiormente vicino a questa visione o a quella dello scrittore e critico letterario francese Charles Du Bos, che nel saggio “Letteratura e vita” scrive: “Senza la vita, la letteratura sarebbe senza contenuto, ma senza la letteratura la vita non sarebbe altro che una cascata d’acqua (…) priva di senso che ci si limita a subire, incapaci di interpretarla”?
Ogni volta che, per prestar loro la voce, mi immedesimo nei protagonisti delle mie canzoni lo faccio mettendo in atto un processo di svuotamento morale, per evitare di influenzare, giudicare e interferire coi personaggi. Non sempre ci riesco. In qualche caso ci guadagnano loro, in altri io, ma è la sincerità a vincere.
La protagonista di “Nel cielo sia” è la madre di Grazia Deledda, donna di altri tempi, con la quale credo che oggi avrei ben poco da condividere. Tuttavia, in quella figura emerge un atteggiamento di madre universale e attuale, dotata di quella forza che Michela Murgia definisce “deformante che sostiene e strangola insieme”; aspetto sul quale ho focalizzato la mia attenzione.
Riguardo i rapporti fra vita e letteratura sono convinto che, al di là del piacere intellettuale che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi, la vita potrebbe anche fare a meno della letteratura, ma non vale il viceversa; d’altro canto, la vita senza i libri si sarebbe già esaurita da un pezzo o non si potrebbe parlare di evoluzione della specie.
Proiettando questo ragionamento nel mio campo, credo che le canzoni siano pur sempre dei vezzi, mentre l’esistenza è un’impresa ben più complessa, delicata e importante.

I suoi detrattori la tacciano di “deandreismo” (Alessia Conti per Rockit Su “Girotondo”: “c’è un problema di fondo: è uguale a Fabrizio De Andrè”) e anacronismo (G. G. Manca per AgoraVox su “Canzoni da solo”). C’è un saggio di Alessandro Alfieri che applica la teoria warburghiana dell’ immagine -una delle più importanti del xx secolo- all’ascolto musicale, scoprendo nessi inaspettati, da Bach e Albinoni alla popular music. In definitiva è la condanna dei concetti di “ripetizione”e “somiglianza”-percepiti aprioristicamente come un disvalore- a risultare anacronistica…Lei che ne pensa?
Ognuno è libero di pensare ciò che vuole, tanto più se sostenuto da intelligenza e competenze, e un critico ha il dovere di svestire e scomporre l’oggetto di cui parla con metodo, sia esso un quadro o uno scrittore di canzoni. Quindi, hanno fatto bene i miei cosiddetti detrattori a mettere a nudo le criticità che hanno rilevato. Fortunatamente finora ho ricevuto tante recensioni positive e due soltanto negative, quelle che citava lei, che De Sanctis forse definirebbe pedanti.
Inoltre, preferirei che si facessero dei distinguo, in quanto penso non si possa accusare di epigonismo chi scrive testi propri. Anche il discorso dell’anacronismo lascia alquanto a desiderare perché drogato dal gusto personale… così potrei dire che, in una canzone, l’arrangiamento musicale costituisce un vestito, e un vestito alla moda è destinato a passare nel tempo, mentre uno povero colpisce meno ma emana dignità. Ma anche quest’ultima affermazione è labile e opinabile, per cui io continuerò a scrivere canzoni, qualcuno le apprezzerà e qualche altro le demolirà con qualche pretesto.

Del resto l’appropriazione caratterizza gran parte della produzione dei più grandi, tra i quali Dylan, che a proposito di Tempest afferma di essere stato trasfigurato. Il concetto di trasfigurazione può a suo giudizio essere impiegato, molto meglio di quello di appropriazione o nostalgia retrospettiva, per la descrizione e la comprensione del suo processo creativo, intimamente legato alla scuola francese e americana, attraverso la mediazione dei cantautori italiani?
Per la mia scarsa attitudine alla misticità preferisco evitare il termine trasfigurazione, che lascio volentieri a Dylan e a Gesù sul Monte Tabor. Il mio processo creativo si è sviluppato in fase giovanile, prima che conoscessi De Andrè, poi sono stati gli ascolti onnivori e lo studio a dar forma a quello che oggi potrei definire il mio stile compositivo ed esecutivo. Certamente sono passato attraverso le scuole dei cantautori nostrani, francesi e americani, e in ogni classe ho imparato nozioni costruendo il mio piccolo bagaglio culturale. Ho cominciato prendendo a modello Guccini, ma De Andrè è stato determinante e indiscutibilmente quello che più ha segnato la mia crescita umana e artistica; attraverso lui ho avuto modo di assorbire qualcosa da Cohen e Brassens, come d’altra parte ho fatto con Bob Dylan e Tom Waits. Sono questi processi non premeditati, più o meno inconsapevoli, che ogni artista vive nell’arco del suo percorso formativo, differenti dall’appropriazione e dall’imitazione passiva degli altri. A tal proposito, Thomas Eliot diceva pressappoco che i poeti immaturi imitano, mentre quelli maturi rubano, i cattivi poeti rovinano ciò che prendono, mentre quelli buoni ne traggono qualcosa di meglio, o almeno qualcosa di diverso. Ma io sono cantautore e non poeta, e neppure troppo maturo.

Il suo cantato ha un accento regionale riconoscibile; il suo canzoniere è fortemente permeato dall’iconografia e dalla cultura sarda, dagli umori e dai sapori isolani, senza tuttavia mai trascendere in esotismi folcloristici da esportazione.
Il Mediterraneo è anche una dimensione dello spirito, un’appartenenza inscritta con forza nella nostra coscienza?
L’insularità, la lingua, l’essere nato e cresciuto in questo sandalo di terra nel Mediterraneo innegabilmente mi hanno forgiato e temprato.
Ogni luogo, qualsiasi luogo, si imprime nella nostra coscienza attraverso il vissuto di ciascuno, facendoci illudere di appartenere a un posto piuttosto che a un altro: forse il principio stesso di identità è una forzatura.
Quando nelle canzoni mi capita di raccontare storie personali l’ambientazione non può che essere quella dove abito da quarantaquattro anni. Ad esempio, “Del tempo” racconta di me bambino, nato e cresciuto nel Campidano. Spesso, a una certa età, si sogna di fuggire dai luoghi dell’infanzia, per poi volerci ritornare nella maturità, a toccare con mano le proprie radici. Io, per non avere rimpianti, ho scelto di restare attaccato a esse e mi sono spostato di cento metri o poco più.
Tutto sommato mi considero cittadino del mondo, per caso nato in Sardegna, e non capirò mai perché l’uomo non comprenda il privilegio che può dar la nascita, il dove il come e il da chi si nasce, e per giunta disprezzi chi non ha avuto fortuna.

Grazie a Paolo Corda per la foto di copertina

Appunti testo e Arrangiamento per “Nel Cielo Sia” di Nicola Pisu
     

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Claudia Erba

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