Penso che chiunque sul pianeta sappia chi è Yoko Ono. È stata la donna più odiata della terra, la “strega maledetta” che ha separato i Beatles, la “donna Drago”, colei che ha “approfittato” della fama sterminata (e del denaro) del marito per raggiungere a sua volta la celebrità, eccetera eccetera, secondo una certa pessima opinione pubblica.
Tutto ciò è stato ovviamente smentito nel tempo, anche dagli altri Beatles (sappiamo che non è stata lei la vera causa della separazione dei quattro baronetti) ma poco si è sempre parlato della sua attività artistica oltre alla musica.
Ciò che tanti dimenticano (o non sanno) è che Yoko Ono spaziava già nel mondo dell’arte molto prima di incontrare John Lennon: oltre che musicista sperimentale e coraggiosa era ed è un’artista visuale eclettica e per molti aspetti davvero innovativa.
Yoko Ono, nata a Tokyo nel 1933, fin dalla fine degli anni 50 fu tra le prime donne ad esplorare l’arte concettuale e dedicarsi alle performance artistiche ed è stata tra i primi membri di Fluxus, un’associazione libera di artisti d’avanguardia.
Fu in occasione di una sua mostra personale all’Indica Gallery di Londra nel novembre 1966 che lei e John Lennon si incontrarono per la prima volta. Narra infatti la storia che Lennon, presente (probabilmente senza invito, ma chi poteva dire di no a uno dei Beatles in quegli anni?) al vernissage della mostra, vedendo una mela esposta al centro di una sala (la quale con il suo deteriorarsi avrebbe dovuto simboleggiare il passaggio del tempo), si sia avvicinato nel tentativo scherzoso di darle un morso. Questo non piacque a Yoko, e i due non si videro per i successivi due anni. Quando poi si rincontrarono fu per non lasciarsi mai più, almeno fino a quella maledetta sera dell’8 dicembre 1980.
Yoko Ono è sopravvissuta al suo unico grande amore per metà della propria vita probabilmente proprio grazie all’arte e alla musica. Oggi ha 91 anni, e la sua ultima apparizione nel video di un suo brano musicale la vede, a 79 anni, danzare in shorts, tacchi e calze nere. Questo per dire che forza della natura lei sia.
Ora (parentesi personale) mi capita di avere una figlia che prima ha studiato e ora lavora a Londra e di andare a trovarla un paio di weekend “lunghi” all’anno. In quelle occasioni, lei mi prepara un programma fitto di visite a musei, gallerie d’arte ed esposizioni, perché fra l’altro ho la fortuna di condividere questi interessi con entrambe le mie figlie. La Tate Modern di Londra è uno dei luoghi dell’arte che amo di più al mondo, sia per la collezione permanente (che torno a vedere almeno una volta l’anno) sia per le mostre temporanee che vi si svolgono periodicamente. In questo periodo vi è ospitata la mostra di Yoko Ono “Music of the mind” a cui decidiamo di dedicare una mattinata. Nei giorni precedenti al viaggio leggo un bel libro sull’artista, “Dichiarazioni d’amore a una donna circondata d’odio” di Matteo B.Bianchi (Incendi), che tra l’altro consiglio, che tratta anche del suo lavoro come artista visuale, preparandomi all’approccio con questa parte della sua vita che non conoscevo. Termino la lettura in aereo, essendomi fatta almeno un’idea di cosa più o meno aspettarmi.
L’esposizione, inaugurata lo scorso 15 febbraio, è una vera esperienza multisensoriale a cui ci approcciamo con curiosità ma anche con il giusto atteggiamento un po’ zen libero da possibili preconcetti. Sappiamo che ci attendono una serie di stanze in cui sono state ricreate le installazioni che hanno rappresentato i momenti più importanti della storia artistica di Yoko Ono, quindi non potrà mancare la musica, ma non tutto ruota attorno ad essa.
Ad accogliere i visitatori sono The wish trees, che in questa occasione sono tre ulivi collocati prima dell’ingresso alla mostra, su cui tutti sono invitati ad appendere dei bigliettini, come nella tradizione nipponica della festa di Tanabata. Quindi entriamo, e la voce dell’artista ci sorprende rispondendo ad una chiamata telefonica: “Hello, this is Yoko”.
Ci siamo, ora siamo davvero dentro l’arte di Yoko Ono, che in una celebre frase dichiarava: “L’arte è la mia vita e la mia vita è un’opera d’arte”. E la parola dentro non è un eufemismo: questa non è una mostra da guardare ma da vivere. Molte infatti sono le occasioni in cui, come da precise disposizioni dell’artista, si può contribuire alla creazione delle stesse opere e allo svolgimento delle performance da lei ideate. Come quando davanti a un muro puoi seguire con una matita il contorno della tua ombra, o piantare un chiodo tra mille in un pezzo di legno, o scrivere (sul muro, a terra, su una barca) qualsiasi cosa tu senta in quel momento con un pennarello blu, che puoi scegliere tra i vari toni di blu e di azzurro a disposizione dei visitatori. Chi mi conosce sa che questa cosa del BLU è già per me molto emozionante, quindi decido di non sottrarmi e mi commuovo una prima volta (non sarà l’unica).
Un’altra istallazione interessante è invece composta da molti caschi militari capovolti appesi al soffitto con fili di nylon. Chi ha la curiosità di volerci guardare dentro, scoprirà che contengono tutti pezzetti di un puzzle che riproduce un cielo con delle nuvole. A quel punto, con nostro immenso stupore, un gentilissimo addetto alla sorveglianza ci inviterà a prendere uno di quei pezzetti e portarlo con noi. Anche questa è la riproduzione di una performance dell’artista già esposta altrove, ma qui i pezzi di cielo hanno la scritta: London, 2024. y.o. (Ed è inutile dire che quel pezzetto di cielo sarà da noi gelosamente conservato per sempre).
La mostra abbraccia un periodo che va dalla prima performance Lighting Piece del 1955, documentata da splendide fotografie in bianco e nero, alla proiezione del video musicale Wisper, del novembre 2013, passando attraverso la produzione pittorica astratta con l’uso dell’inchiostro nero della tradizione calligrafica giapponese e l’esposizione di moltissime pagine (un’intera lunghissima parete) del libro Grapefruit, istruzioni per la creazione artistica, alcune di una bellezza essenziale che rasenta il surrealismo. Come “Cloud Piece. Imagine the clouds dripping. Dig a hole in your garden to put it in. (1963 spring)” e “ Piece for the wind. Cut a painting up and them be lost in the wind. (1962 summer)” ad esempio. Tra le altre opere esposte, gli oggetti bianchi tagliati a metà che arredavano una Half-A-Room nel 1967, le scacchiere completamente bianche, White chess set del 1966, le Air Bottles del 1967, e alcuni sacchi neri appesi alla parete, Bag piece del 1964, in cui si è invitati a entrare per muoversi liberamente e creare forme nello spazio. Nemmeno a questa esperienza vorrò rinunciare, a differenza della maggior parte dei visitatori: mi infilo nel sacco che mi ricopre dalla testa ai piedi e che mi impedisce di vedere anche il minimo spiraglio di luce, e così isolata dal mondo tento di eseguire un kata (una forma) di karate, arte marziale orientale che pratico in tutt’altro contesto. Vi assicuro che è una sensazione indescrivibile e straordinaria!
E poi c’è anche lei, la famosa Apple che John ha tentato di mordere, la mela “galeotta” del loro primo incontro. No, la mela ovviamente non è la stessa, perché è vera, verde e fresca, e come previsto dall’artista subirà il deterioramento naturale (per essere di volta in volta sostituita) ma ora sappiamo che, come tutte le opere di Yoko Ono rappresenta solo un mezzo per veicolare un messaggio potente. Come i messaggi di PACE del periodo dell’amore e della vita con John, testimoniati da fotografie e grandi scritte nere sui muri: la celeberrima WAR IS OVER! o PEACE is POWER, BED PEACE, e poi la serie di fotografie che raccontano ACORN PEACE del 1969, o le pitture del 1999, tele quadrate con al centro solo una parola scritta in verde: YES; TOUCH; FLY; REMEMBER; IMAGINE.
Imagine, appunto.
Infine, subito prima dell’uscita, l’ultima esperienza è il passaggio nella stanza in penombra dedicata alla madre, in cui i visitatori sono invitati ad attaccare un bigliettino o una foto per la propria genitrice. Yoko Ono ha avuto una madre anaffettiva dalla quale presto si è allontanata e ha subito il distacco forzato dalla propria figlia (in seguito al rapimento da parte del suo primo marito che ne ha fatto perdere le tracce): immaginiamo cosa possa rappresentare per l’artista un’opera del genere? E cosa possa rappresentare per i visitatori frugare nel profondo della propria storia familiare, o attraversarla abbracciata (come nel mio caso) alla propria figlia rivista da poche ore?
Ecco, Imagine.
YOKO ONO, Music of the Mind
Londra, Tate Modern Gallery
dal 15 febbraio al 1 settembre 2024
Fotografie scattate con l’iphone, naturalmente consentite. Un particolare ringraziamento a mia figlia per il dono del biglietto e al personale di sorveglianza per la gentilissima presenza e collaborazione.