A fine maggio Roberta Giallo ha vinto, nella sezione “Testo Canzone”, il “Premio InediTO – Colline di Torino”, con “Io canto l’estate”; è l’unica donna finalista al “Premio Bindi” 2017 (una tra le più prestigiose rassegne dedicate alla canzone d’autore e intitolata all’ indimenticato cantautore genovese); il 30 giugno a Milano concorrerà per il premio finale al concorso “L’Artista che non c’era”, una delle iniziative della ventennale realtà editoriale “L’Isola che non c’era”, con la partnership del CPM, uno dei centri italiani di eccellenza per la musica.
In realtà la carriera di Roberta Giallo è letteralmente costellata di riconoscimenti (vincitrice-per ben due volte- della borsa di studio al CET di Mogol, premio “Un Certain Regard” per la migliore esibizione live di “Musicultura” 2013, primo posto al “Festival Mediterraneo”, al “Soleada Festival” e al “Cornetto Free Music Festival”) ed è segnata da collaborazioni importanti; tra le più significative quelle con Lucio Dalla, Samuele Bersani e Piero Sidoti.
Quella di Roberta Giallo-cantautrice, autrice, performer teatrale, pittrice e scrittrice- è un’estetica dell’ambivalenza, ben rappresentata dal concept-album “L’oscurità di Guillaume” (Yellow Music, 2017), che scandaglia le infinite declinazioni del più insondabile tra i sentimenti snodandosi tra antinomie, tentativi di conciliazione e dualismi volutamente irrisolti, inscritti in una sur-realtà immaginifica ed onirica.
Roberta Giallo sembra- cezannianamente- identificarsi di volta in volta con la canzone, con il dipinto, con il prodotto creativo in genere, smarrendo temporaneamente la differenza tra sé e la rappresentazione artistica in un unicum che vive di percezioni profonde e appagamento ludico.
Il suo è un universo sonoro onnivoro e ontologicamente ibrido, sospeso tra lirica ed eleganza pop, tradizioni celtiche e suggestioni jazzy; un gergo autenticamente “postmoderno” nella sua
multivocità semantica, in bilico tra naivetè e ironia.
Lei ha inventato la formula dell’autoritratto dinamico, una creazione musicale estemporanea in cui la performance, tendenzialmente irripetibile, viene cristallizzata attraverso l’impiego della webcam.
In questa pratica improvvisata la libertà e la casualità hanno un ruolo assorbente?
In questo caso Libertà e Casualità sono “tutto”. Per me rivestono un ruolo importantissimo già quando mi trovo a scrivere una “canzone vera e propria”… in questo caso sono fondamentali, senza di loro non esiste autoritratto dinamico.
Inoltre l’autoritratto a volte è il germe di una canzone, alcuni autoritratti così nascono e così restano… altri si evolvono in canzoni, magari più meditate e cesellate.
La sua immagine si nutre di suggestioni fumettistiche e una certa fiabesca naivetè sembra connaturata alle sue diverse espressioni artistiche. Anche “L’oscurità di Guillaume” (Yellow Music, 2017), prodotto ed arrangiato da Mauro Malavasi, è-per sua stessa ammissione-un disco onirico…il suo è un surrealismo postmoderno?
Faccio sempre fatica a “definire le cose” attraverso formule, generi, etichette ecc… ma mi rendo conto che diventa necessario a volte trovarne o inventarne di nuovi, per far capire qualcosa, dare un indizio, in modo immediato, a chi ne ha bisogno.
In questo caso gli aggettivi “onirico” e “surreale” possono facilitare la comprensione della mia natura e della natura di questo album.
Il prefisso “post” invece è come il prezzemolo, di questi tempi sta bene dappertutto, perché noi in effetti siamo “post”; veniamo dopo tante cose. Inoltre siamo anche dei “post”, viviamo in mezzo ai post, siamo in certo senso, la generazione che “posta”.
Ricapitolando “post” può esprimere due concetti, essere diversamente interpretato… e l’ambivalenza mi piace.
L’arte deve suggerire più letture possibili!
La mia poetica è legata ai sogni e alla capacità immaginifica, in questo album particolarmente, inoltre “L’oscurità di Guillaume” è stato partorito “nell’epoca post” in tutti i sensi… quindi sì, mi accollo volentieri tutte queste “definizioni”, che ad ogni modo non sono esaustive dell’opera; l’opera va ascoltata!
Nel 2010 ha scritto testo e musica del brano “Mettici più Verve”, interpretato da Simona Molinari. Quanto ha influito il jazz-in quanto estetica dell’ibridazione-sulla creazione del suo gergo sonoro, che si nutre della commistione di generi diversi (dalla lirica al pop, passando per il celtico e il soul)?
Quando, dopo i miei concerti, le persone mi vengono incontro in molti mi dicono: “tu sei una cantante jazz!” Allora, io non lo so! Nel senso, vale anche qui quel che ho detto prima, non amando le definizioni e non sentendomi “attaccata” ad un genere preciso, faccio fatica ad affermarlo, perché lo trovo personalmente impreciso… ma al tempo stesso non nego che la cosa mi lusinga! Propri del Jazz sono l’abilità interpretativa e tecnica, lo swing, il virtuosismo… tutte cose che apprezzo e amo in un artista, perciò, se mi definiscono “cantante jazz” in qualche modo queste persone vedono in me queste qualità…
Tuttavia, per onor di verità, non posso autodefinirmi tale senza qualche precisazione. Sono una cantautrice itinerante, che sperimenta, ho studiato pianoforte, canto lirico, ma anche approfondito e amato la musica dei cantautori, il soul, il pop, il blues, e una marea di “non generi”… mi diverto a fondere gli stili come con una tavolozza di colori… non a caso sono Roberta Giallo! E sì, sono uno strano animale, sono un ibrido. Ibrido mi piace!
E dal jazz ho imparato molto, un po’ volendolo, ma molto di più senza intenzione, assorbendolo, sia perché ho frequentato a lungo locali dove il jazz era di casa (ad esempio il “Bravo Caffè” di Bologna) sia perché ho ascoltato e sono cresciuta anche ascoltando alcuni “divini” e “divine” del jazz/soul/blues… non so: Billie Holiday? Janis Joplin, Ella Fitzgerald, Aretha Franklin, John Coltrane…
Nel 2013 alcuni suoi componimenti poetici sono stati pubblicati nella collana “I poeti contemporanei” (numero 119), redatta da Elio Pecora. Le giro l’interrogativo che si è posto il poeta campano: “La modernità comporta velocità ed estensione: si arriva in un baleno a tante persone, nei luoghi più diversi e lontani. Può rifiutarsi a questo la poesia, tenuta così a lungo appartata?” (E. Pecora)
Secondo me la poesia è per tutti ma è di pochi. Nel senso, l’operazione di portarla in giro, diffonderla è encomiabile, ma mi rendo conto che “non tutti arrivano a farsi sedurre dalla poesia”.
O si è innamorati della poesia, si è “aperti” alla forza della parola, o si resta sordi, impenetrabili!
Quindi la poesia nasce per arrivare potenzialmente a tutti, lei c’è. Esiste nei testi, nella voce dei poeti… ma poi non è di tutti… è di chi la sente, di chi la percepisce, di chi se ne innamora. Stop.
Lei è cantautrice, autrice, performer teatrale, pittrice e scrittrice. Queste forme espressive sono ontologicamente trasversali o, nel suo personale linguaggio stilistico, permangono degli steccati?
Non metto io gli steccati. Non amo farlo. Ma li mette ” il mercato”, come dire, il mondo in cui l’arte deve essere divulgata.
Esempio: se uno scrive un libro, l’editore deve immediatamente “catalogarlo” come romanzo, o come saggio, o come racconto, come opera psicologica, o filosofica .. così come se fai un disco; il discografico deve capire se presentarti come un’artista pop/alternativo/rock/r&b ecc… ecco! Non c’è verità nelle definizioni, solo semplificazione utile a catalogare, a vendere!
E lo capisco, del resto, come si fa a mettere la realtà dentro uno scaffale? Si fa così, come con i pomodori: passati/pelati/tritati ecc. …
Io sono una cantautrice trasversale, ibrida e trasversale; questi aggettivi mi piacciono. E mi piace il teatro proprio per questo, è una forma d’arte piuttosto trasversale, come del resto può esserlo il cinema e ogni atto performativo!
E quando “performo”, sì, sono abbastanza trasversale… perciò sono felice!
Nel 2015 ha interpretato, nello spettacolo “Roberto Roversi – Una voce r/esistenziale”, la versione integrale de “La canzone di Orlando”, mai eseguita prima, scritta dal poeta Roberto Roversi e da Lucio Dalla. Dalla collaborazione Dalla-Roversi sono nate canzoni visionarie, al limite della sperimentazione e, a tratti, ermetiche. Preferisce questo repertorio a quello dalliano più tradizionale?
Amo tutto di Lucio. Davvero. Non lo dico per semplificare. Più lo conosco più lo amo.
Proprio perché di lui amo la libertà, la poliedricità, la sorpresa… la capacità di essere sempre uguale e sempre diverso. Non c’è un Lucio che preferisco, anche se in qualche intervista a volta ho “nominato” qualche canzone preferita per “semplificare”. Ci sono alcune sue canzoni che in passato amavo “di meno” e che ora amo di più! Capisci? con la maturità si ama di più, si comprendono più cose… Non saprei rispondere. Ma amo molto, naturalmente, il “Lucio Roversiano”, il pre e pure il post!