Interviste

Lodo Guenzi

Scritto da Francesco Bettin

La musica si può fare bene dal punto di vista artistico senza soldi, ma forse anche il teatro. Cioè fuori dai principi di mercato, che toglie libertà, ed è saturo, e quindi le uniche cose interessanti cominceranno a vedersi tra quelle al di fuori di esso. Esattamente come quando abbiamo cominciato con Lo Stato Sociale

Bolognese, da giovane studia arte drammatica a Udine, all’Accademia Nico Pepe. In questi giorni è in scena con Trappola per topi, di Agatha Christie, una produzione La Pirandelliana che lo vede protagonista nei panni del Sergente Trotter, per la regia di Giorgio Gallione. Ma come si sa Guenzi è anche il frontman e uno dei fondatori della band Lo Stato Sociale, quelli, per intenderci di Una vita in vacanza, presentata al festival di Sanremo nel 2018, (secondo posto e Premio Lucio Dalla), dove son ritornati nel 2021 con Combat pop. Guenzi, talentuoso e intraprendente, è appassionato di arte in tutte le sue forme, tanto è vero che è attore anche di cinema (Est, di Antonio Pisu, Il giorno più bello, di Andrea Zalone, Gaspare Spontini, Celeste Amore, del trio Antolini, Tarabelli, Morresi, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, di Pupi Avati).
Lo abbiamo incontrato durante una pausa proprio del lavoro teatrale della Christie con cui sta girando l’Italia.

Caro Lodo, bentrovato e grazie…Musica, teatro, cinema…non ti risparmi. C’è qualcosa che potrà stupirti ancora?
Tendenzialmente in molte delle cose che faccio sono un dilettante. In questi ultimi anni tornare a fare teatro è stato bello, il dibattito pubblico attorno al linguaggio di massa, che è la musica, si è incredibilmente appiattito, instupidito. L’idea invece, di “rapire” delle persone e tenerle un’ora e mezzo o due dentro una sala, costrette a finire il giro del proprio ragionamento con la loro testa è secondo me un buon trucco per non cadere nella stupidità. In questo momento scrivendo una canzone è facile comporre dei versi che magari non verranno ascoltati , o che scandalizzino qualcuno che poi dica delle cose, faccia strane considerazioni.

Nel teatro questo non lo vedi…
Comunque le persone che pagano un biglietto per entrare a teatro tendono a finire di vedere lo spettacolo, e questa cosa è una buona chiave di lettura, no? Ad esempio “Trappola per topi” è uno spettacolo leggero che però parla di un omicida. Se fai una canzone sullo stesso tema in questo momento è possibile che ti “condannino” in quanto tale, la tua intenzione. Che si pensi che stai facendo una strana apologia dell’omicidio. Invece facendo teatro nessuno viene a dirti che Medea è un’apologia dell’infanticidio, mentre nel linguaggio di massa è così, c’è questo rischio. Anche nel cinema: puoi fare un film sui camorristi, giustamente, ma non sugli squartatori, perché c’è il rischio che qualcuno venga a dirti che ti va bene, anche se tu lo fai proprio perché non va bene.

Ci parli del tuo personaggio, del Sergente Trotter, che interpreti in “Trappola per topi”?
Di lui posso dire che è come un bambino che si porta dietro dei traumi, come gli altri personaggi del resto. Portando avanti l’indagine deve fare un lavoro di marce, se fosse una lezione di guida, particolarmente sottile. Di tutti è il meno esasperato e forse per questo è il più problematico. Ed è un personaggio che bisogna far arrivare al pubblico pian piano, bisogna saper usare, appunto, le marce basse, cosa che io ancora non avevo fatto.

Giuseppe Santamaria Palombo

Da giovanissimo sei andato a Udine per frequentare l’Accademia d’arte drammatica Nico Pepe. Il teatro dunque era una tua passione già da giovanissimo?
Mi piaceva tenere banco, come si dice. Non mi piaceva stare mai seduto, nemmeno a scuola, trovavo sempre un modo per stare in piedi. In quegli anni poi la Nico Pepe era una scuola di buonissimo livello, e forse scelsi Udine anche per poter andar un po’ via da casa, come fosse una specie di avventura. E poi un’accademia di quel tipo è così totalizzante che consiglierei comunque di viversela fuori da dove si abita, non si ha comunque tempo per coltivare altre relazioni, è un mondo parallelo.

Parliamo di musica: “Stupido sexy futuro” è l’ultimo album della tua band, Lo Stato Sociale: ma voi in qualche modo vi sentite un esempio, un faro per le band di giovanissimi che fanno musica? No, anche perché quello che facciamo è molto difficile da replicare, siamo quelli con meno tentativi di imitazione, quello che facciamo è molto collettivo, variegato e molto anarchico e questo invita poco all’imitazione. Purtroppo o per fortuna…”Turisti della democrazia”, il nostro primo album, tempo fa ha compiuto dieci anni e abbiam fatto delle date live, dove di fronte c’era un pubblico ventenne, che quando è uscito il disco ne avevano dieci di anni. C’è stato questo passaggio generazionale, che si vedeva nettamente, ed era molto chiaro che una certa radicalità, una certa anarchia erano i motivi per cui quelle cose erano sopravissute. Con “Stupido sexy futuro” è venuto il momento di ritrovarci, di fare un disco come dodici anni fa, con quel tipo di libertà, di disagio e credo che questa cosa sia stata recepita esattamente da quelli che ci riconoscono per quel tipo di musica e di rabbia. Un disco che non ha parlato alle tv, e non ha intenzione di farlo. Gran parte della promozione generalista l’abbiamo rifiutata, e non è che se l’avessimo accettata saremmo andati primi in classifica, sia chiaro, non era il disco per arrivare lì.

Sempre coerenti con voi stessi insomma…
E’ stata una questione di recupero nostro, come gruppo, e anche il nostro ultimo disco fatto con Matteo (Romagnoli, autore e manager della Garrincha Dischi, mancato quest’anno a 43 anni, ndr) . Io, che sono un procrastinatore, che penso sempre che il lavoro non è mai finito, che dobbiamo continuare, avere altre idee e non pubblicare mai, se penso che abbiamo fatto in tempo a pubblicare un disco che Matteo era con noi, mi dico che va bene. Sono felice che sia andata così.

Hai un ricordo personale suo?
Ce ne son tanti…scelgo questo: io sono una persona insicura, paurosa, a parte quando sono sul palco, unico posto dove sono sereno. Eravamo in macchina, mi accompagnava, io stavo andando giù di testa per una cosa stupida, poteva essere un’assegnazione di un brano da giudice a X Factor che per me era sbagliata e non si poteva più cambiare, non questione di vita o di morte, ecco. Dopo un po’ che sbroccavo mi ha urlato in faccia e mi ha detto di smetterla di rompere i coglioni, e di guardare cosa’aveva lui sulla schiena, una massa grande. Mi disse: Tutti i giorni io non so se il giorno dopo mi sveglio, quindi adesso andiamo a fare quello che dobbiamo fare e non rompi più. Mi riportava alla realtà, quella vera.

Naturalmente diversa dall’ambiente dello spettacolo, della tv…
Assolutamente, quell’ambiente tende in modo molto forte a rendere gravissime delle cose leggere e viceversa. Amplifica e toglie, è un bel paradosso, è un contesto nel quale si può parlare con leggerezza di notizie di cronaca devastanti, o di macelleria sociale, tagli alla salute pubblica, alla scuola, cose che rovinano la vita alle persone, e si può anche scherzare di questo. Ma quando c’è una gara di canzoni tutto diventa serissimo…

A questo punto devo chiederti anche del Festival di Sanremo, se ci pensate ancora, a un vostro un tuo ritorno?
No, no basta, anche se non ho niente contro Sanremo, a parte la gratitudine. Mi ha cambiato la vita, mi ha proiettato in un immaginario collettivo dentro il quale in qualche maniera ho imparato a nuotare, e mi ha dato la possibilità di fare tante altre cose, tante scelte e di avere un pubblico a prescindere, diciamo, dalla band. A Sanremo devo dire grazie, ma si può anche non rimanere lì, essere dentro un sistema generalista è una cosa che tende a ridurti un po’ a una cosa sola, se ci rimani tanto tempo. L’idea mia invece è provare a scappare, e a lavorare su qualcosa che possa rimanere che non sia una gara di esposizione. Cito Giorgio Gaber. Quando mollò la televisione per andare nei teatri disse “Alcuni vogliono prendere l’assegno, altri vogliono lasciare il segno”. Questo me lo ha raccontato Lupo, suo nipote. Mi sembra una frase bellissima.

E a proposito di Gaber, Battiato, Jannacci, o De Andrè, come vedi chi porta nei teatri i loro spettacoli? Penso a Giulio Casale, Andrea Scanzi, Neri Marcorè, ad esempio.
Sono spettacoli che non ho visto, anche se sarei curioso di farlo. Trovo comunque molto interessante l’esperienza di Scanzi che non essendo un attore o un cantante si misura con questi grandi. Parlando di Gaber e Jannacci, sono stati ottimi cantautori, drammaturghi e interpreti di se stessi. I testi di Jannacci ad esempio, nel novanta per cento sono esilaranti in relazione al tempo comico che ha nel dirli, alla sua faccia, al fatto che da lui ti puoi aspettare una cosa che se la dico io non fa ridere uguale. Credo che per rapportarsi con queste cose si debba mettere in campo un altro punto di vista. Neri Marcorè è un attore importante che ha un suo stile e se lui porta in scena Gaber lo trovo importante. Quanto più ti allontani dall’adesione di quella cosa più puoi creare uno spazio nuovo perché così fai emergere il drammaturgo e l’autore. L’attore lo devi lasciare lì, l’attore Gaber intendo.

Interessante questo tuo punto di vista, Lodo.
Tanti anni fa ho avuto la fortuna di vedere a teatro Paolo Villaggio che faceva “L’avaro” di Molière, e fondamentalmente faceva Fantozzi, era la sua maschera, e quella cosa era fortissima. In qualche maniera creava come uno spazio nuovo, appunto, la possibilità di vedere un qualcosa che non c’era. Emerge a quel punto, quando la recitazione è molto caratterizzata, la forza dell’autore. Gaber lo è, e Jannacci altrettanto, ma di una difficoltà…Ho fatto un pezzo suo al Premio Campiello, “Parlare con i limoni” ,mi pare sia andata bene ma bisogna sempre metterci il cuore perché ci vuole un attimo a fare la sua imitazione. Devi capire la sua intenzione, che è surreale, magica, che è una roba che non tornerà mai più ma è essere se stessi, anche e se è complicato. Per De Andrè invece, secondo me, essendo proprio autore di canzoni, se si fa un arrangiamento diverso e si ha una voce caratteristica propria, vien fuori che si propongono belle canzoni che secondo me le persone possono cantare all’infinito. Il bello delle canzoni è proprio questo, alcuni magari possono anche cantarle in maniera più dirompente rispetto all’attualità. Penso ad “Amore che vieni, amore che vai”, cantata da Battiato e che secondo me è più bella dell’originale.

Citando una canzone de Lo Stato Sociale, ti senti tu (in buona compagnia mi vien da dire) “fottuto per sempre” in questa società?
Si’, certo. Secondo me quel pezzo riguarda proprio la nostra generazione e in generale la crisi dell’ingresso nell’età adulta, pensa a quella famosa frase che dice “volevano cambiare il mondo e il mondo ha cambiato loro”. La mia è una generazione rovinata, rispetto a quelle prima, che hanno qualcosa in più che le salva, cioè una dialettica aperta col passato.

Tu dici che siamo più fortunati, noi “vecchietti”.
Non avete piallato tutto quello che c’era mentre la nostra è una generazione in cui i valori, se vogliamo innovativi, sembrano calati da Marte senza che ci sia nessun continum con quello che c’è stato prima .Non c’è nessuna dialettica con la storia che ci ha portato fin qua, e la cosa è a volte pericolosa: è anche stupida perchè se non ti relazioni con la storia non stai costruendo un pensiero. Noi ragioniamo come se fossimo arrivati alla fine della storia, come se i nostri valori siano i valori di un arrivo, che tutto il mondo vecchio è sbagliato e che il nostro è un mondo fatto di come devono andare, invece, le cose. Ma tra cent’anni anche di noi diranno che abbiamo sbagliato un sacco di roba.

Siamo tutti dentro quella storia.
Certo, perché questo è il progresso, e siccome ci asteniamo dalla sfida di essere dentro il ciclo storico finiamo per essere molto irrilevanti. Non è un caso che nel mondo vincano ovunque le destre, che infatti sono all’interno di quel ciclo storico.

La musica, il teatro, oggi come oggi si possono fare bene nel nostro paese?
La musica si può fare bene dal punto di vista artistico senza soldi, ma forse anche il teatro. Cioè fuori dai principi di mercato, che toglie libertà, ed è saturo, e quindi le uniche cose interessanti cominceranno a vedersi tra quelle al di fuori di esso. Esattamente come quando abbiamo cominciato con Lo Stato Sociale, eravamo interessanti proprio per questo. Il cinema purtroppo, invece, ha proprio bisogno di denaro e di quella libertà che oggi manca, quella di girare qualche settimana in più, ad esempio, e di essere meno cotto e mangiato, diciamo.

A chi governa cosa si può chiedere dunque?
Sicuramente un reddito di discontinuità per i tecnici, un riconoscimento per i live club, le sale concerto, il rispetto del lavoro insomma. La musica live in particolare muove milioni e milioni di euro facendo lavorare a chiamata decine di migliaia di tecnici. I tecnici del teatro hanno un contratto, loro invece niente. E magari lavorano250 giorni all’anno. Per gli artisti invece la stessa cosa è molto difficile perchè chi può stabilire chi è un artista ?Qual è il consiglio dei saggi che lo decide, magari alcuni che non capiscono niente? Pensiamo che i più grandi innovatori della pittura del Novecento erano quelli a cui tiravano i pomodori! Sono troppe le varianti. Intanto paghiamo i tecnici, che sappiamo cosa sono e cosa fanno, per me questo è fondamentale.

Grazie Lodo, per questa bella conversazione. Alla prossima. E buona musica, buon teatro!

Foto di copertina di Federico Riva

About the author

Francesco Bettin

Francesco Bettin nasce a Bassano del Grappa (Vicenza) nel 1962. Articolista dal 1980, comincia scrivendo e collaborando con quotidiani e riviste locali, formandosi in seguito prevalentemente su critica teatrale, esercitando anche quella cinematografica, qualche volta. Successivamente inizia a scrivere, sempre per diverse testate, anche online, di musica, facendo recensioni. Numerosissime sono le sue interviste pubblicate, da Monica Guerritore a Alessandro Haber, da Cristiano De Andrè a Laura Morante, Claudia Gerini ecc. Anche sul suo sito, olimpiainscena.it , scrive e pubblica, divulgando anche con mailing list, numerosi articoli, recensioni e interviste sia di teatro che di musica, assieme a un gruppo di fidati collaboratori. Pur avendo i requisiti non ha mai voluto diventare giornalista pubblicista.

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