Il tuo secondo album Il Buio è uscito più o meno un anno fa, adesso a cosa stai lavorando?
Guarda, il tempo di uscita tra la realizzazione di un disco e la pubblicazione è sempre esageratamente dilatato (almeno per quanto riguarda gli artisti indipendenti) e questo non permette mai il sincronismo tra pensiero dell’artista e ricezione del pubblico. Tanto che i provini per il terzo album sono pronti da quasi un anno ed ora ho selezionato 13 nuovi brani che a breve andrò a incidere – in una maniera completamente diversa dal precedente album.
Veniamo ai tuoi grandi amori… La musica rap. Ho notato che a differenza di molti tuoi illustri colleghi, venuti alla ribalta negli ultimi anni lo utilizzi in maniera diversa da quella originaria, e cioè la canzone di denuncia. Per te è sempre un mezzo per descrivere emozioni e stati d’animo …
Non riesco a negare agli altri l’amore per l’hip hop e nemmeno a me in primis. Effettivamente provengo dalla scena hip hop di metà anni novanta e mi porto appresso qualche nostalgia. Del rap attuale non riesco a salvare più niente, nemmeno le produzioni musicali che per quanto migliorate restano ancora abbastanza povere e trovo anche molta ipocrisia riguardo le canzoni di denuncia sociale. Del rap amo piuttosto l’aspetto metrico e di sincope che negli altri generi è quasi inesistente. Amo il freestyle – allenamento celebrale che ritengo strepitoso – e in alcuni casi anche l’introspezione dei testi. Così non me ne distacco personalmente e cerco sempre di sfruttarlo come strumento tecnico e senza spirito autocelebrativo; come punto di partenza e mai di arrivo.
Quando iniziai a chiamare a raccolta i primi musicisti per improvvisare un gruppo sulla linea dei The Roots agli altri sembrava un tradimento e ora invece colgo il consenso di molta gente, anche della scena hip hop. Poi c’e da dire che io ho sempre ascoltato folk nord-americano e mi hanno sempre attratto anche le belle canzoni d’autore italiane. Battisti per esempio, ma ora ci sono gruppi che mi influenzano musicalmente come i Bright Eyes e la mia idea musicale non ha più influenze provenienti da queste latitudini.
Il Viaggio. Nei testi delle tue canzoni torna spesso il viaggio nelle sue diverse declinazioni, partenza, ricerca, viaggio interiore, riscoperta, e ovviamente anche il solo viaggiare alla scoperta di nuovi paesi, gli Stati Uniti, su tutti …
Il viaggio è la mia unica droga. La costante senza la quale non saprei essere felice a casa e guardare le cose con vista un po’ più panoramica. Nel tempo è diventata un’esigenza anche lavorativa e un metro di analisi del paese dove vivo. Allontanandomi da casa riesco sempre a trovare idee e spunti per ogni lavoro che faccio; anche non necessariamente musicale. Forse non è così per tutti e ho stima anche di chi non ha mai preso più della bicicletta per farsi un giro. Gli Stati Uniti mi hanno regalato un’esperienza preziosissima e sono diventanti la mia seconda casa. Quando arrivai a Los Angeles per la prima volta mi sentivo perso nell’universo, poi dopo qualche mese mi sono integrato al punto di volerle bene. In un luogo dove sei “nessuno” credo tu possa provare a diventare “qualcuno”; l’Italia è un paese troppo familiare per “essere nessuno”.
Quando ho soldi, progetti e tempo raggiungo amici musicisti che vivono a LA e andiamo a prenderci un caffè da Starbucks fatto all’italiana.
Le proprie radici. Sei mai andato a pescare le anguille come racconti in “Cielo d’ottobre”? Insomma quanto c’è della tua terra nella tua musica?
Credimi, ci andavo a pescare anguille, ma era semplice passione per la pesca. Talvolta ci andavo con un mio grande amico o con mio nonno ed ero io a trascinarli in mezzo a zanzare e acquitrini. Poi la sera toccava a mia nonna la pulizia del pescato, ma nulla che riguardi le abitudini della mia terra (tuttora se posso vado al fiume a pesca). Per concludere, tutto ciò di cui parlo nel disco è in qualsiasi forma tremendamente reale e comunque una foto di ciò che è accaduto. Il buio è stato pensato più come un libro a capitoli che un disco e quel capitolo è un semplice ricordo degli anni che furono.
E infine, una curiosità. La vita per Dulcamara è come il tuo pseudonimo, dolce con un retrogusto amaro? Dove nasce la scelta del tuo pseudonimo?
Lo pseudonimo nacque alla fine degli anni ’90, periodo in cui dipingevo molto e decisi di chiamare una mostra “Amara Dulcamara” dopo avere letto un libro di Gesualdo Bufalino che citava la Dulcamara di Donizetti. Curioso è che quel nome poi mi sia piaciuto a tal punto da sceglierlo per il primo disco “Dulcamara Lasciami ad Est”. La sua origine etimologica suggerisce questo aspetto della pianta subito dolce al gusto e poi tremendamente amaro e probabilmente questo aspetto dipinge l’idea che ho della vita, pur non ritenendomi un pessimista cosmico. Ora questo nome mi si è incollato addosso come un adesivo e probabilmente va in conflitto con l’idea attuale della mia musica, ma non saprei come liberarmene.