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Quatsch (sognati dal futuro) Anno 1 N.5

Scritto da Stefania Pucci

L’Amor che move il sole e l’altre stelle

Lou Reed e Laurie Anderson si sono conosciuti, ironia della sorte, non a New York, dove entrambi abitavano, ma a Monaco, dove entrambi stavano suonando con John Zorn per il Kristallnacht Festival, festival creato in ricordo della Notte dei Cristalli del 1938, la data che segnò l’inizio dell’Olocausto.
“John” racconterà poi Laurie Anderson in interviste successive “voleva che ognuno di noi incontrasse gli altri e suonasse con gli altri, contrariamente a come si usa nei festival. Ecco perché Lou mi ha chiesto di leggere qualcosa insieme al suo gruppo. L’ho fatto, ed era forte e intenso e molto divertente. Dopo lo spettacolo, Lou mi ha detto ‘lo hai fatto nello stesso identico modo in cui lo faccio io!’. Perché avesse avuto bisogno di me per fare un qualcosa che poteva benissimo fare da solo ancora non l’ho compreso, ma era sicuramente inteso come un complimento.”
Lou è stato l’anima nera dei Velvet Underground e della Factory di Andy Warhol, “il tipo” come ebbe a dire Lester Bangs “che ha dato dignità, poesia e rock’n’roll all’eroina, allo speed, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’inettititudine e al suicidio.”
Ha avuto matrimoni e relazioni, sia omosessuali che eterosessuali, finite spesso fra le recriminazioni e il dolore.
Laurie è performer, cantante, artista a tutto tondo che, con la sua carriera, ha ridisegnato e ridefinito il ruolo della donna nell’ambito artistico e musicale.
Pur abitando a pochi isolati di distanza a New York i due avrebbero potuto non incontrarsi mai “Venivo da un mondo completamente diverso. E tutti i mondi a New York all’epoca erano abbastanza provinciali. In un certo senso sprezzanti. Ancora non legati tra loro.”
I due si sposeranno anni dopo il loro primo incontro, in un sabato assolato e casuale, dopo una decisione repentina presa il giorno precedente “Era la primavera del 2008. Stavo camminando per strada, in California, mi sentivo abbattuta e parlavo al cellullare con Lou. ‘Ci sono tante cose che non ho mai fatto e che volevo fare’ gli ho detto. ‘Come cosa, per esempio?’ ‘Non so, non ho mai imparato il tedesco, non ho mai studiato fisica, non mi sono mai sposata’ ‘Perché non ci sposiamo?’ mi ha chiesto. ‘Ci incontriamo a metà strada. Arrivo in Colorado. Che ne dici di domani?’ ‘Uhm … non pensi che domani sia un po’ troppo presto?’ ‘No, non lo penso.”
Lou però era malato. Aveva contratto l’epatite C negli anni ‘70, a causa di una siringa infetta e negli anni 2000 si era ammalato di tumore al fegato. Dopo un trapianto le cose, purtroppo, peggiorano e Lou perde la vita. E’ il 27 Ottobre 2013. Laurie racconterà poi che il marito non si era dato per vinto fino a mezz’ora prima della morte, quando “al’improvviso l’ha accettato, tutto di un colpo e completamente.”
“Non ho mai visto un’espressione così piena di stupore come quella di Lou quando è morto. Con le mani stava facendo la ventunesima forma di Tai Chi, che rappresenta lo scorrere dell’acqua. Aveva gli occhi spalancati. Stavo tenendo tra le mie braccia la persona che amavo di più al mondo, e gli parlavo mentre stava morendo. Il suo cuore si è fermato. Non aveva paura. Ero riuscita ad accompagnarlo fino alla fine del mondo. La vita – così splendida, dolorosa e abbagliante – non può andare meglio di così. E la morte? Io credo che lo scopo della morte sia la liberazione dell’amore.”

E’ L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE

David Bowie incontra Iman per la prima volta da qualche parte nei primi anni 90, a una festa casuale organizzata dall’amico comune, il parrucchiere Teddy Antolin.
Lui è il Duca Bianco, icona glam di ogni epoca, l’uomo che più di ogni altro ha spostato i confini dell’estetica e del rock.
Il suo passato artistico geniale ma disordinato e denso di errori, tra cui una lunga relazione con la droga, si mescolava come acqua e olio a un profondo sentimentalismo e alla serietà commovente con cui prendeva le storie con le sue donne. David voleva essere l’uomo di qualcuna, di quella giusta, proprio come Paul Newman con Joanne Woodward. Ma era un tipo difficile da “sistemare”. Provava a frequentare qualcuna ma non era semplice capire se la donna che gli si dichiarava innamorata lo era di lui, del personaggio, o del suo patrimonio. Bowie aveva frotte di ammiratrici disposte a tutto per lui, ma fra le quali non se la sentiva di scegliere. La donna giusta doveva portare in dote un sentimento sincero ed essere famosa a sufficienza per non impressionarsi davanti a lui, per non soffrire di sudditanza. Quando Antolin gli ha presentato Iman alla festa, David ha sentito un fremito al cuore. “Ho pensato subito che fosse quella giusta”, racconterà poi in molte occasioni.
Iman è la stella nel firmamento dell’alta moda di quegli anni. Di origini somale, figlia di un ex ambasciatore, è reduce dal matrimonio con il giocatore di basket Spencer Haywood, finito pochi anni prima.
A quella festa di compleanno David Bowie non sa come agganciare Iman per convincerla a uscire con lui. “Mentre la guardavo pensavo già ai nomi dei figli che avremmo avuto insieme”, racconterà lui. Nervoso come un collegiale, preoccupato di sembrare troppo frettoloso, la sente dire che la mattina dopo sarebbe partita per uno shooting di moda, e con noncuranza fa una nota mentale del giorno e dell’orario del rientro. Si fa trovare a sorpresa all’uscita del suo volo e la invita “a bere un tè insieme uno di questi pomeriggi”. Durante i 24 anni della loro storia, Iman lo prenderà in giro spesso, dopo aver scoperto che non era affatto un bevitore di tè e che quella era la prima cosa che gli era venuta in mente, nel panico. Dopo quel primo appuntamento i due cominciano a vedersi, cercando di non farsi notare dalla stampa. Durante una vacanza a Parigi, sulla riva della Senna, lui sfodera un anello con zaffiro da 15 carati e una cascata di diamanti (che lei aveva apprezzato in una vetrina di Ponte Vecchio durante un altro viaggio insieme a Firenze) e le chiede di sposarla. Pare assurdo, ma lei risponde di no. “Come faccio a sposarlo?”, spiegò al loro amico comune, allibito. “Non ho mai incontrato sua madre e lui non ha mai conosciuto i miei genitori!”. Le cose si svolsero quindi seguendo le regole di lei, musulmana e tradizionalista, e lo scandaloso Duca Bianco si comportò come un piccolo lord del 1800 per ottenere il sospirato “sì”. Incontrò la mamma e il padre di lei, un diplomatico in pensione, e le presentò la sua mamma, l’ex cameriera Peggy. Poi portò la sua amata in crociera romantica sul Bosforo, le chiese per la seconda volta di sposarlo tirando fuori un anello in più, con un diamante giallo. E stavolta, lei accettò.
Il matrimonio durerà 24 anni fino al 10 gennaio 2016, giorno gelido in cui le agenzie di stampa battono la notizia della morte di David, stroncato da un tumore al fegato tenuto accuratamente nascosto per 18 mesi, alla stampa, ai fans e agli estranei.
“Non mi sposerò mai più, David sarà per sempre mio marito, non il mio defunto marito. Non chiamatelo così” dirà Iman settimane dopo, scrivendo l’eterno epitaffio alla sua storia d’amore.

È L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE

Da una discussione sull’arte e su cosa sia l’arte nella fotografia e in tutte le altre sue forme.
Annie Leibovitz e Susan Sontag hanno avuto una relazione ventennale, durata fino alla morte di quest’ultima, avvenuta per leucemia nel 2004.
Annie ha esorcizzato il dolore della perdita fotografando il corpo, ormai pronto per gli ultimi rituali della morte e dell’addio, della compagna di una vita. La prima volta che ho visto quelle foto ho avuto un moto di repulsione. Reduce da un lutto che mi aveva spezzato, e tuttora mi spezza, il cuore, mi chiedevo quale ignobile forma d’amore richiedesse un tributo così alto. Il tributo del re nudo, il tributo a un corpo fatto carne e spogliato di ogni soffio vitale, il tributo a una fine. Oggi, dopo tutta l’acqua che è passata e che ha quasi scardinato il mio ponte, riesco a vedere. L’amore immenso e indistruttibile, il dolore puro e totale, l’omaggio crudele e agghiacciante a chi abbiamo amato. Ad una donna, un corpo, una persona, all’oggetto dei nostri pensieri più profondi, al fine ultimo del nostro desiderio, all’amore. Semplicemente, indiscutibilmente, l’amore.
C’è arte in queste immagini? Sì, mille volte sì, perché l’arte è urgenza, è bisogno, è disegnare se stessi nel corpo e nel volto altrui. Un pittore rinascimentale o un compositore ottocentesco sono, sono stati, migliori di una fotografa del ventunesimo secolo? Non erano forse la stessa persona? Non esorcizzavano le stesse paure, non affrontavano lo stesso dolore, non guardavano in faccia gli stessi fantasmi? L’enorme democratizzazione del mezzo fotografico (la stessa che ha permesso a me di avvicinarmi a questo mezzo, avessi dovuto fa’ quello che ho fatto e faccio con la camera oscura a quest’ora staremmo parlando di uncinetto) ha permesso a chiunque di comporre buone, belle, tecnicamente perfette, immagini. C’è arte in quelle immagini? No. Ma l’arte arriva quando affrontate lo scoglio più profondo, quando date voce, corpo e anima alle vostre paure più durature. L’arte arriva quando è il vostro corpo, nudo e sanguinante, l’oggetto sul tavolo autoptico. Che sia una canzone, un quadro, una fotografia o un fumetto, è di voi che l’arte si nutre. Di noi, dei nostri desideri, delle nostre nevrosi, delle nostre sempre nuove e dolorose fragilità.
Annie Leibovitz ha fatto questo. Ha permesso che il dolore le scavasse dentro, ha spogliato se stessa di ogni minimo orpello e, attraverso il corpo morto della donna amata, ha rappresentato se stessa e il male che le bruciava addosso. Ha fatto di una morte un’opera d’arte, definitiva e distruttiva. Ha creato qualcosa che non esisteva, plasmandolo da se stessa e gettandolo in pasto al mondo. Ha donato senza volere niente in cambio. E donando è diventata un’artista.

È L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE

Copertina n.5 di Quatsch di Jack e Basta:

Un amore di pronomi, di Massimiliano Bellavista
Dammi tre parole. (parole, parole, parole), di L’Eremita Osservatore
Washlet la corporeità dell’oltre, di Red Sheep
Quatsch Menu #1, di Caroline Freddi
Sagge decisioni, di Reddie

About the author

Stefania Pucci

Ho un corpo. Una faccia, due gambe, due braccia, due seni. Ho della pelle, tanta, troppa pelle. Pelle che brucia sotto il dolore, pelle che si squarcia a ogni ferita. Ho delle ferite. Le mie scelte, le scelte di altri mi feriscono. Mi lascio graffiare e ferire. Perchè questo mi rende viva. Imparo dal sangue a scorrere, riverso nel sangue le mie paure. Sono una donna. Sono il mondo. Sono nulla. Sono tutto.

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