Come è nato il progetto musicale “Moonin Down”, perché si chiama così e quale la sua evoluzione nel tempo?
Ci conosciamo da una vita e abbiamo cominciato a suonare insieme la prima volta nel 1993 nel progetto Blues so Bad. Abbiamo militato anche in altri progetti, ma l’alchimia che si forma tra noi non l’abbiamo mai sperimentata in altri progetti. Il territorio d’ incontro dei nostri diversi gusti musicali è la Psichedelia e abbiamo cominciato da ragazzi a proporre un repertorio di cover di brani abbastanza sconosciuti tipo You Never Had It Better degli Electric Prunes e altri presenti nella raccolta Nuggets insieme ad Interstellar Overdrive dei Pink Floyd. Dopo i primi tempi abbiamo cominciato a comporre brani nostri che sono finiti nel nostro primo album del 1998 The Monday of the shoemaker. L’idea che stava dietro al nome Blues so Bad era rifarsi a brani che avessero la matrice Blues, ma che avevano deviato verso un’impronta più sporca e cattiva tipo Killing Floor o Stooges. Questo tipo di radici le abbiamo sempre mantenute e le si possono riconoscere anche nei brani più psichedelici. Negli anni 90 la facilità con cui riuscivamo a suonare live con quel nome e repertorio ci ha un po’ viziato e fatto andare avanti negli anni, ma ad un certo punto, avendo cominciato a proporre i nostri brani originali, avere un così chiaro riferimento al Blues nel nome della band è diventato un ostacolo perché chi potenzialmente avrebbe potuto apprezzare la nostra musica si fermava alla parola Blues e chi invece voleva il Blues non lo trovava! Dopo un periodo di stacco dai live e dedicato a comporre nuovi brani abbiamo deciso di ripartire quasi da zero con un progetto nuovo a nome Moonin Down dove è confluita tutta l’esperienza precedente e che ora ci rappresenta a pieno. The Third Planet è il punto di arrivo della trasformazione e il punto di partenza per esplorare nuovi mondi. Il nome Moonin Down nasce da un brano composto prima di decidere di cambiare direzione alla band; è un brano ruvido, immediato e irriverente. Nel mondo anglosassone il Moonin’ sta a indicare il gesto di mostrare le natiche pallide come la luna per protesta contro i soprusi dei potenti come sovente è accaduto fra 1700 e 1800, è un’attitudine che si confà a noi!
Potreste parlarci della vostra produzione musicale?
Moonin Down evoca con “Moon” la luna, l’astro della notte, il mistero, l’introspezione, il viaggio interiore e con “Down”, il senso di discesa, d’immersione profonda. La nostra produzione sorge da queste immersioni nei lati oscuri e inconsci, sia per quanto riguarda i testi, che per la musica.
Le tematiche trattate nei testi sono intimiste: riflessioni esistenziali, stati d’animo opprimenti da cui fuggire, sogni infranti, ineluttabilità del destino accompagnate da questioni sociali e da una visione distopica del futuro del pianeta e dell’umanità come nella title track. Il viaggio sonoro che proponiamo cerca di aggirare le soluzioni banali pur volendo rimanere semplici e non avere troppa differenza tra i brani incisi e la loro resa dal vivo. In questo periodo abbiamo avuto diverse recensioni ed è divertente leggere i riferimenti trovati ascoltando la nostra musica: “rock grezzo, pulsante, parastoogesiano”, “…riecheggiano di ritmi tribali, venti del deserto tra i confini dello psych-rock, dell’hard blues e del garage.” Essendo divoratori di musica da molti lustri, penso che sia fisiologico che l’inconscio restituisca in maniera random gli elementi depositati, non c’è una volontà di guardare indietro, è più un averli con sé nel presente e proiettati al futuro. Come abbiamo sintetizzato nei nostri comunicati stampa, ci siamo sempre nutriti di Psichedelia, Garage, Hard Blues, Desert Rock e il risultato è quello che si sente nell’album. Diversi anni fa creammo il neologismo PsicHARDelic Rock per etichettarci da noi prima che altri lo potessero fare! Abbiamo inserito la parola HARD in mezzo a Psichedelic, sia per richiamarci alla matrice Hard Blues dei nostri inizi, che per specificare la nostra attitudine alla psichedelia che, specialmente nei live, va più nella direzione di brani “pestati” rispetto a quella delle atmosfere troppo dilatate e sognanti.
Il recente album s’intitola: “The Third Planet”. Qual è per voi l’entità di questo terzo pianeta?
Ci riferiamo al terzo pianeta del nostro sistema solare, la Terra. Il titolo e la copertina di The Third Planet si allaccia alla omonima canzone che descrive un pianeta Terra ormai inospitale, desertico e tossico. La presa di coscienza dei nostri drammatici tempi che mettono a rischio la sopravvivenza del bel pianeta verde e blu e dell’umanità ha ispirato una visione distopica del futuro. Nel brano si descrive la condizione di un piccolo gruppo di umani che sfuggiti alla catastrofe viaggiano fra i pianeti per raggiungere un porto sicuro. Il parallelo è con il Resto d’Israele narrato da Profeta Isaia; per quanto grande e traumatica sia la catastrofe, rimane un residuo di superstiti da cui può sorgere la speranza.
Quanto conta per voi la dimensione “live”? E, se si potesse scegliere il posto “top” per suonare, quale sarebbe il vostro?
La dimensione “live” è fondamentale per la maggior parte degli artisti e delle band perché rappresenta il momento in cui si crea un legame diretto e autentico con il pubblico, possiamo affermare che abbiamo cominciato a suonare per quello. Esibirsi dal vivo permette di condividere l’energia e le emozioni in modo unico, oltre a dare vita ai brani in un contesto diverso da quello dello studio di registrazione; è anche un’opportunità per esplorare nuove interpretazioni degli stessi, interagire con i fan e costruire una connessione più profonda con loro. Ogni locale ha un pubblico con le sue peculiarità, ci piace molto girare e scoprire queste caratteristiche e avere feedback diversi. Potendo scegliere vorremmo suonare all’Austin Psych Fest, epicentro mondiale della scena psichedelica attuale e per quanto riguarda l’Italia il Joshua Blues Club di Como e il festival Set to Sun in Sardegna.
I Moonin Down sono:
Stefano Biagioni: chitarra, voce.
Fabio Buda: basso, voce.
Alessio Tambellini: batteria, voce.