Ci sono concerti che sono solo spettacoli. E poi ci sono concerti che diventano atti di resistenza, manifesti di bellezza, rinascite fragorose nella loro delicatezza. Il ritorno di Samuele Bersani sui palchi, dopo il silenzio forzato causato da una malattia che lo aveva costretto a fermarsi, appartiene con prepotenza alla seconda categoria. Quella delle serate che ti segnano. Che ti fanno ricordare perché ci ostiniamo ad amare la musica nonostante tutto.
Nella bellissima cornice dell’Auditorium della Conciliazione di Roma, con un’orchestra a sorreggerlo – e, va detto, a esaltarne ogni sfumatura – Bersani ha regalato al pubblico un live di quelli che ti strappano piano, con grazia, senza chiedere il permesso. L’apertura con Il mostro è stata un pugno dolce nello stomaco: un pezzo recente, ma già classico nella sua capacità di parlare del male di vivere con una lucidità poetica, tra ironia e abisso. La voce, magari non sempre potentissima, è sembrata più che mai vera, venata di una vulnerabilità disarmante.
Come due somari e Occhiali rotti hanno acceso il motore narrativo di Bersani: canzoni che sono piccoli film, con dialoghi taglienti, dettagli vividi e un’ironia che non fa mai sconti. In Spaccacuore, eseguita con un’orchestra che sembrava cucita su misura, è venuto giù il teatro: l’arrangiamento sinfonico ha preso quella ferita d’amore e l’ha trasformata in qualcosa di immenso, quasi cinematografico.
Non sono mancati i momenti più politici, mai urlati ma densi: Lo scrutatore non votante e Barcarola albanese restano esempi luminosi di come si possa fare cantautorato impegnato senza predicare. In Harakiri, il Bersani del presente si fa lucido cronista del proprio smarrimento: “Scrivere una canzone non serve a salvarsi, ma è tutto quello che ho”, sembra voler dire, e la platea ascolta in religioso silenzio.
Il cuore emotivo del live, però, sta forse in brani come Il tuo ricordo e Ex e Xanax, due ballate sull’assenza e la memoria che diventano universali nel momento stesso in cui le canta. Cattiva e Coccodrilli portano una ventata di surreale, come se Paolo Conte fosse nato negli anni Settanta e avesse ascoltato i Radiohead.
Poi, la storia: Freak, Chicco e Spillo, Replay, Tu non mi basti mai. Ciascuno con un vestito nuovo cucito dall’orchestra, ma con quell’identità così forte da non aver bisogno di trucco. Ogni nota è un viaggio nel tempo, ogni parola un richiamo alla parte più vera di noi. Quando parte Giudizi universali, è come se l’intero pubblico si stringesse in un abbraccio invisibile. Bersani la canta con gli occhi chiusi, come a proteggere il senso profondo del suo capolavoro.
Il gran finale con Il pescatore di asterischi è puro teatro dell’anima, mentre Braccio di Ferro e Settimo cielo confermano quanto il suo repertorio sia ancora una miniera inesauribile di intuizioni, giochi linguistici e ferite mai del tutto rimarginate.
Samuele Bersani è tornato. Non con il clamore, ma con la forza silenziosa di chi ha guardato in faccia il buio e ha deciso di raccontarlo a modo suo: con poesia, ironia e musica che ti entra sotto pelle. E se anche la voce a volte trema, il messaggio arriva più forte che mai: non basta cantare per esserci. Bisogna avere qualcosa da dire. E Bersani, per fortuna nostra, ha ancora tantissimo da raccontare.
Si ringraziano Auditorium della Conciliazione, Friends & Partners e MNComm
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