Lei aveva un nome che cambiava ogni mattina. Oggi si chiamava in qualche modo, domani chissà. Dormiva vestita di vento, scriveva parole sui muri con un rossetto che sapeva di fragola e anarchia.
L’altrə, invece, non aveva nome. Solo una lingua – fatta di occhi, polpastrelli e respiri trattenuti.
Abitavano una casa con stanze che cambiavano posto. Un giorno la cucina si trovava sul soffitto, il giorno dopo, il letto galleggiava in una vasca piena di libri bagnati.
E loro facevano l’amore tra le parentesi, tra le pause e le cose non dette, tra i cassetti dove altri avevano nascosto la paura.
Si amavano e facevano ciò che volevano: si guardavano dormire, scrivevano poesie con la schiena, lei poi preparava tempeste nella tazzina del caffè.
Un giorno, si svegliarono e non si riconobbero subito. Le loro voci sembrava avessero cambiato accento, i corpi imparato altri alfabeti. Ma si sedettero lo stesso, nudə, a mangiare il silenzio come pane fresco.
— Mi ami ancora?, lei chiese
— Se me lo chiedo allora forse non è amore. Continuo a fare ciò che sento. E ti voglio. Le disse.
E allora capirono. Che l’amore non era solo una casa da abitare senza senso e senza sensi. Era una specie di terremoto per cui con una gioia — folle e sacra — potevano scegliersi ogni giorno di nuovo e ricostruirsi insieme esattamente come volevano essere.