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Nicola e l’arte di disinnescare 

Scritto da Giulia Carlucci

Nicola era salito sulla sedia senza chiedere il permesso. Aveva allargato le braccia come per racchiudere in quell’abbraccio tutto il salone

La guerra è iniziata di lunedì. Come le settimane storte- quelle che già al mattino ti fanno sbagliare le scarpe-  e come tutte le rogne peggiori.
Non una guerra vera, no. Ma chi abitava nel condominio di Via della Santa Pazienza 2 avrebbe giurato che ci andava molto vicino.
La portinaia, donna dal sarcasmo svelto e dall’orecchio fino, l’aveva ribattezzata “Intifada Condominiale”.
Tutto era iniziato  perché il signor Amin, secondo piano int. 6, aveva sistemato una piccola bandiera colorata sul suo balcone.
“È solo il mio modo per ricordare da dove vengo,” aveva detto, con semplice malinconia. Ma a qualcuno, evidentemente, ricordare non piaceva.
La signora Mirella, quarto piano int. 10, aveva subito replicato con un cartello: “Niente politica qui, solo pace!”
Peccato che quella parola, pace, l’aveva scritta sopra il disegno di un muro. E i muri, si sa, dividono. Non uniscono di certo! Nel giro di tre giorni, il condominio si era frantumato: da una parte chi difendeva il diritto alla memoria, anche se dolorosa, dall’altra chi predicava la neutralità, silenziosamente e ordinata. Volavano sguardi in corridoio più pesanti dei sacchi dell’umido.
Qualcuno aveva rovesciato la pianta del signor Amin. Qualcun altro aveva tolto la scritta Pace dal cartello della signora Mirella, lasciando solo un muro vuoto. La chat condominiale era un campo minato di emoji passivo-aggressivi, si collegava ad articoli e silenzi che gridavano.
Poi, un venerdì, in assemblea straordinaria, con le parole che graffiavano e le mani che parlavano più delle bocche, Nicola si era messo in piedi sulla sedia.
Abitava al 5B, da quando era nato, sei anni prima, e da allora osservava tutti con gli occhi languidi di chi ancora non ha imparato a odiare.
Perennemente scapigliato,  fan assoluto dei dinosauri, collezionista di sassolini con le facce, e capace di piangere per una formica schiacciata. Nicola era salito sulla sedia senza chiedere il permesso. Aveva allargato le braccia come per racchiudere in quell’abbraccio tutto il salone.
“Io penso che ognuno può mettere fuori quello che ha nel cuore, però non deve far piangere gli altri per dire che esiste. Se avete paura di una bandiera, forse è perché non la conoscete. Magari potete chiedere. Come faccio io con i dinosauri che non so.”
Silenzio.
“E penso che se vi volete bene, potete anche litigare, ma poi vi dovete dare un abbraccio. Lo dice la maestra. E lei ha fatto la pace pura con quello del parcheggio che le ha rigato la macchina”.
Il signor Amin aveva abbassato la testa, commosso.
La signora Mirella si era portata una mano al petto, come se avesse sentito qualcosa spezzarsi dentro e poi ricomporsi, improvvisamente.
Nessuno parlava. Solo un respiro collettivo, quasi fosse un lungo sospiro.
Alla fine, l’amministratore – uno che aveva imparato a stare zitto nei momenti giusti – aveva avanzato la sua proposta: ogni mese, chi voleva poteva mettere qualcosa sul proprio balcone. Un simbolo, una frase, una storia. E tutti, condominio incluso, si impegnavano a fare una cosa sola: ascoltare.
Solo quello. Niente voto. Niente maggioranze. Ascolto solista.
La guerra finì così. Non con un accordo. Non con l’unanimità. Solo la scelta coraggiosa di non avere paura delle storie degli altri.
E un bambino che aveva detto ciò che i grandi dimenticano troppo spesso: a volte, per costruire la pace, bisogna smettere di pretendere che abbia solo il nostro colore.

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Giulia Carlucci

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