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Aleksandros Memetaj in Albania Casa Mia

Scritto da Stefania Pucci

Nasce lì quest’Italia brutta e crudele che abbiamo in sorte, così dedita al suo piacere da non avere la capacità di vedere oltre, di ricordare che in un’epoca non così lontana, i migranti eravamo noi, i nostri nonni e bisnonni, erano nostre le valige di cartone che solcavano l’oceano, nostri i sogni e le speranze di un futuro migliore

Ieri
E’ l’alba dell’8 agosto 1991. L’Italia è in vacanza. Una telefonata sveglia l’allora vice prefetto di Brindisi, Bruno Pezzuto. È la guardia costiera che, in un surreale gioco alla “guardie e ladri” è stata avvertita dai contrabbandieri che ogni notte pattugliano le acque territoriali che all’orizzonte è apparsa una nave stracarica di uomini. Quella nave è la Vlora, partita dal porto di Durazzo la notte precedente. Al timone, stremato, il comandante Halim Milaqi.
Secondo la sua ricostruzione di quei giorni il 7 agosto, durante le operazioni di sbarco al rientro da Cuba carica di canna da zucchero, la nave era stata assalita da una folla di persone che avevano costretto nave ed equipaggio a salpare di nuovo in direzione Italia.
“La Vlora era ancorata al molo 5, stavamo scaricando lo zucchero cubano, fuori dal porto vidi un gran movimento: non passò molto tempo prima che la gente sfondasse i cancelli del porto. La nave si riempiva, non potevo fare manovra, decisi di allontanarmi dalla banchina…ma usando le cime riuscivano ad arrampicarsi, anche quelle che gli lanciavano i primi che erano saliti”.
Pezzuto è terrorizzato. Negli ultimi mesi Brindisi è stata teatro di numerosi sbarchi, si calcola che siano almeno 27.000 gli albanesi che hanno raggiunto Brindisi via mare nei primi mesi del 1991, per sfuggire a un Paese in rotta, alcuni con navi mercantili riconvertite al trasporto passeggeri nell’arco di una notte, altri, I più, a bordo di barche e barchini di fortuna.
All’arrivo a Brindisi gli albanesi vengono accolti dalla città che fa quello che può, abbandonata totalmente dalle istituzioni, cieche e sorde di fronte a quello che sta diventando un problema umanitario senza precedenti. I brindisini aprono le loro case, offrono aiuti, letti, cibo… Ma stavolta è troppo. Le voci che giungono dal mare parlano di oltre 20.000 persone ammassate su una sola nave, 20.000 uomini, donne e bambini stremati da una traversata che, pur breve, sembra infinita.
Tra loro Kledi Kadiu, il ballerino che diventerà famoso grazie a Maria De Filippi, il quale dirà poi “Solo a pensarci ho ancora sete; finii per bere acqua salata e andai fuori di testa perché la sete aumentò”. Aveva sedici anni. “Ero in spiaggia, una manciata di secondi, non c’è stato neanche il tempo di pensare. Con quattro amici, abbiamo visto la nave, era un po’ più grossa delle altre, hanno detto che partiva per l’Italia. Un po’ anche solo per andare a vedere cosa accadeva, cosa c’era dall’altra parte, senza rendersi bene conto di quello a cui si sarebbe andati incontro”
Pezzuto riflette, Brindisi è stremata, le sue risorse non sono infinite e la città è troppo povera per potersi accollare anche questo sbarco. Pensa velocemente e prende una decisione che spedirà un’altra città nella storia: “Portateli a Bari”. Pensa e spera che le 7 ore di viaggio permettano alla città di prepararsi, alle autorità di svegliarsi e mettere in campo una forza che fino a quel momento è stata inesistente.
Sua è la prima telefonata all’allora sindaco di Bari, il giurista Enrico Dalfino:
“State per ricevere un carico di 20.000 persone. Buona fortuna”
Di quei momenti convulsi il racconto della moglie di Enrico Dalfino:
«Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava quello a cui stava andando incontro. Dopo qualche ora mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. “Sono persone” – ripeteva – “persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza”.»
L’arrivo a Bari ha i tratti di un’apocalisse. Sul molo ad attendere i migranti, oltre al sindaco Dalfino, 200 agenti delle forze dell’ordine, impauriti e privi di qualsivoglia ordine, che non anno cosa aspettarsi, se avere paura, di chi avere paura.
Appena in vista del Porto gli uomini ammassati sulla nave iniziano a lanciarsi in acqua per raggiungere nuotando la banchina e sfuggire alle autorità.
Alcuni, pochi, ce la fanno. Gli altri, troppo impauriti stanchi e stremati per fuggire vengono rinchiusi per 5 giorni nel catino rovente dello Stadio della Vittoria.
Lo stadio diventa una bomba a orologeria. Si parla di almeno 15.000 persone chiuse dentro, lavate con gli idranti, (mal)nutrite con I panini gettati dagli elicotteri, totalmente abbandonate e prive di assistenza sanitaria,
Ma Dalfino non ci sta. Da giurista e intellettuale quell’immagine di uomini, donne e bambini (senza nome, senza volto, senza identità) stremati dal caldo, dalla paura, ridotti a numeri, incapaci di raccontare la loro storia e impossibilitati a ricevere aiuto lo ferisce profondamente. Chiede aiuto a tutti I livelli del potere, sbatte le mani sul tavolo, cerca di imporsi. Ma nell’Italia dei Craxi e degli Andreotti, nell’Italia che non vede oltre il proprio naso, riceve solo rifiuti, porte sbattute in faccia.
Dallo stadio inizia la spola verso l’aeroporto di Bari. I migranti vengono convinti con l’inganno (“Ma ci portate a Venezia?” chiederà uno di loro all’autista) e rimpatriati con la forza.
Ottavio Calamita, ex funzionario dell’AMTAB, municipalizzata per il trasporto e sindacalista della Cgil, ricorda così quei giorni:
Ero in vacanza con la mia famiglia, in Calabria. Appena ho saputo, son partito, in macchina, da solo. Arrivato la sera a Bari, mi sono messo a disposizione dell’azienda – ricorda Calamita – Le scene erano incredibili, sentivo un dolore immenso di fronte a alla sofferenza terribile di quelle persone in quelle condizioni. Le ferie non contavano più. Il Comune ci ha detto che aveva bisogno di aiuto, di mettersi a disposizione della Prefettura. Non esistevano procedure, si è improvvisato, facendo leva sui sentimenti. Ricordo persone che portavano vestiti, cibo, acqua. C’era da rendersi utili. Uno slancio che non ho mai più visto. I sindacati si sono messi la mano sul cuore, stoppando le ferie a tutti gli autisti e molti si misero a disposizione. Pensate al trasporto di decine di migliaia di persone con i nostri mezzi del servizio pubblico quotidiano, che possono portare poche persone per volta. Dodici mezzi, con autisti sfiniti, che lavorarono giorno e notte. Ricordo chi dava una mano, ma in particolare ricordo un collega, autista, Saverio. Mi raccontò di un signore, magro, piccolo, con gli occhialini. Piangeva, era ingegnere in Albania. Mi raccontò che lo implorava, che non voleva essere rimandato indietro. E Saverio l’ha nascosto tra le sue gambe, in mezzo ai pedali della postazione di guida, l’unica che non si vedeva bene dall’esterno. Sfuggito ai controlli dei poliziotti che vigilavano sulla discesa di tutte le persone, Saverio fermò il mezzo lungo la strada del ritorno e augurò buona fortuna a quell’uomo che fuggì
Intanto I giornali, anch’essi impreparati di fronte a quel fenomeno, costruiscono la narrazione tossica che ancora oggi accompagna le migrazioni di massa.
“INVASIONE” è il titolo della Gazzetta del Mezzogiorno all’indomani dello sbarco. Gli sbarcati non hanno un nome, non hanno un volto, le immagini, poi entrate nella storia di Luca Turi raccontano di un ammasso di corpi privo di sentimenti, arrivato in Italia al solo scopo di derubare gli italiani di quella ricchezza che vedevano oltremare, raccontata dalla TV, con I suoi varietà, infarciti di ballerine e paillettes, con I servizi dei tg sulle vacanze al mare, con le pubblicità, piene di case sicure, di persone eleganti e benvestite, che raccontano storie di consumismo sfrenato ed edonistico, storie di un Paese che non ha paura del futuro.
Nasce lì, da quella parola, da quel titolo, da quel termine feroce e inaspettato in un’afosa mattina di agosto, la paura del barbaro invasore, nascono lì le stragi in mare, I morti di Cutro e di Lampedusa, nasce lì la Bossi-Fini, nasce lì il “Non partite” di Matteo Plantedosi, Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana, che, all’indomani della strage di Cutro, oltre 100 morti causati anche e soprattutto dalla lentezza dei soccorsi in mare, accuserà le vittime di non avere abbastanza a cuore le sorti di loro stessi e dei loro figli, sottoponendoli a viaggi inutili e pericolosi.
Nasce lì quest’Italia brutta e crudele che abbiamo in sorte, così dedita al suo piacere da non avere la capacità di vedere oltre, di ricordare che in un’epoca non così lontana, i migranti eravamo noi, i nostri nonni e bisnonni, erano nostre le valige di cartone che solcavano l’oceano, nostri i sogni e le speranze di un futuro migliore.

Oggi
La Guglia, quartiere di Livorno, esterno giorno. In un cortile ricolmo all’inverosimile, circondato da palazzine di edilizia popolare grazie al Festival di “teatro fuori dal teatro” Scenari di Quartiere, arriva Aleksandros Memetaj, 30enne veneto di origine albanese, che porta in scena il suo “Albania Casa Mia”. “Albania Casa Mia” è la storia di Aleksandros, arrivato in Italia a 6 mesi e cresciuto in un Veneto chiuso, fatto di lavoratori che si ammazzano di ombre in osteria, che dopo ogni “albanese di merda, tornatene a casa tua” nominano un “albanese bravissimo” che gli ha fatto casa e che ti insegnano a fare la pizza.
“Albania Casa Mia” è la storia di Alexander, padre, patriota, giocatore di scacchi e bevitore di rakia (“Un miscuglio di grappa e petrolio) che imparerà a fare la pizza per necessità (che tanto “non c’è niente che un valonese non possa fare bene”). È la storia di Aleksandros, che da suo padre ha imparato a fare la pizza. E a lottare per se stesso, per I suoi diritti e i suoi desideri, e a sentirsi a casa a Valona e ad amare la propria terra e a raccontarla, con l’occhio disincantato e cinico di chi sa vedere i difetti e sa amarli e circoscriverli in un racconto universale.
“Albania Casa Mia” è la storia di un figlio e di un padre. È la storia di due terre lontane che si incontrano su un treno regionale, in una destinazione casuale. È il racconto di un padre che dice al figlio “Impara a fare la pizza, che non si sa mai”.

Aleksandros Memetaj
Scenari di Quartiere

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Stefania Pucci

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