E’ ormai indubbio che il gioco di ruolo giapponese sia una delle più grandi costanti, quando si parla di videogiochi.
Dai periodi più fortunati a quelli più cupi, i JRPG hanno sempre seguito una linea che sembra viaggiare quasi in parallelo al resto dell’industria, come indisturbata dai successi o fallimenti degli altri generi, potendo contare su un’ancora di accaniti fan, che come da tradizione continueranno sempre a comprare le nuove uscite delle più affermate software house.
Il leggendario Final Fantasy di Squaresoft, l’iconico Dragon Quest di Enix, o l’eterno Megami Tensei di ATLUS; nomi che, anche per i meno avvezzi al genere, non possono che rappresentare dei colossi per l’intera industria videoludica. Qualcosa che, tra flop di console, crolli del mercato, e trend che cambiano, avrà sempre la sua fetta di mercato.
Tra questi giganti però, durante gli anni, molti più giocatori hanno cominciato a scorgere un franchise di più piccole dimensioni, che non è riuscito immediatamente a muovere il mercato internazionale e nemmeno ad avere il pieno rispetto dei consumatori, ma che a passo d’uomo ha continuato a camminare, non cercando di imitare l’andamento dei propri simili solo per andare veloce come loro, ma mantenendo una propria identità, un unico e identificativo modo di camminare.
È infatti proprio per la sua distinta personalità che la saga di Mother, in occidente Earthbound, per quanto sfortunata da un punto di vista commerciale fuori dal Giappone, ha continuato a destare il fascino di sempre più appassionati, facendo nel tempo nascere in tutto il mondo un vero e proprio culto.
La community di cui vanta la saga è infatti uno dei più grandi paradossi dell’industria: contrariamente a quanto uno schivo publisher o un vero e proprio flop sul mercato occidentale non possano far pensare, i fan dei giochi sono con il tempo aumentati sempre più, e con essi i vari sviluppatori che hanno continuato per decenni a ispirarsi allo stravagante modo in cui Mother veicola le proprie storie e l’irriverenza con cui i titoli del franchise si presentano al pubblico, interfacciandosi al medium del videogioco in un modo che non era mai stato fatto prima, e che forse non verrà mai più fatto.
E’ ancora più paradossale notare come i titoli abbiano assunto, a decenni di distanza, la stessa immagine colossale che forse, il director nonché ideatore dell’intera saga Shigesato Itoi, non aveva mai voluto loro ottenessero.
Dopotutto, l’uomo non è un game designer, né tantomeno una figura particolarmente coinvolta nell’industria, ma nonostante ciò è coinvolto in prima persona in una delle storie più particolari e confuse del medium, da cui, nonostante i suoi successi, non è stato mai veramente supportato. Di chi stiamo parlando, quindi?
Un obiettivo tra mille
Ci troviamo nel Giappone degli anni 80, culturalmente lontanissimo dall’immagine che abbiamo oggi del sol levante. Uno dei mercati più fiorenti in questo periodo del paese è quello del copywriting.
Un copywriter non è altro che uno scrittore di slogan, frasi che invogliano il lettore a compiere una determinata azione, che sia a fini pubblicitari o sociali.
Shigesato Itoi, una delle personalità di spicco legate a questo mondo, è una delle celebrità più stravaganti del momento.
E’ un copywriter, ed è stato anche uno studente modello, però sembra anche essere stato un teppista di strada. Credo scriva manga, ma sembra che faccia anche da co-autore nella stesura di romanzi. Qualcuno dice che nel tempo libero abbia l’hobby di osservare formicai, mentre altri sanno sia un aspirante cappellaio.
Non c’è niente su cui l’uomo non ponga almeno il dubbio del suo interesse, o un briciolo del suo tempo, ed è particolarmente stimato dai suoi colleghi per le sue doti da narratore.
Una personalità così aperta a nuovi hobby o passioni non può non essere colpita dal terremoto che rappresenta il Famicom di Nintendo, console che accese una vera e propria mania per il videogioco giapponese, da cui l’uomo viene rapito.
Tra tutte le qualità che scorge nel medium, l’autore è particolarmente affascinato dalla sua capacità di veicolare una storia attraverso componenti ludiche.
I giochi di ruolo nipponici di questi anni sono però prevalentemente ambientati in mondi fantasy ispirati all’Europa medievale, e Shigesato, che si sta già interessando all’idea di realizzare un gioco tutto suo, non è molto affine a setting del genere.
L’uomo infatti, per disinteresse, o forse per semplice ignoranza in merito, non è mai stato attratto dall’idea di scrivere storie in simili ambientazioni.
E’ così che, per puro diletto, l’autore comincia a segnarsi su un taccuino idee e storie da narrare sotto forma di videogioco, che si distaccano nettamente dai trend del mercato, immergendo i personaggi in contesti non solo urbani, ma anche contemporanei.
L’uomo è già molto popolare in Giappone, ancor prima di cominciare effettivamente a lavorare sul gioco. Compare già spesso in televisione, e sporadicamente gli capita di esprimersi riguardo al medium videoludico, riferendosi con grande rispetto nei confronti dei titoli Nintendo, che pare lo abbiano aiutato facendogli compagnia in un momento difficile.
Queste affermazioni gli danno inaspettatamente una grande occasione nell’industria, in quanto viene proprio invitato a parlare con i piani alti dell’azienda, con cui riesce finalmente a condividere delle idee per realizzare videogiochi, nonostante questi lo abbiano chiamato per una semplice consulenza per dei dialoghi, date le sue doti da scrittore.
Durante una delle riunioni, Itoi propone in fretta e furia dei concept a non altri che il visionario Shigeru Miyamoto, padre dei principali successi dell’azienda, nonché pilastri della storia del videogioco, come Super Mario, The Legend of Zelda o Star Fox.
L’uomo ha qualche dubbio, dopotutto non è la prima volta che una celebrità viene ingaggiata per la realizzazione di un videogioco, e prima d’ora non si è quasi mai trattato di una scelta vincente.
L’idea però lo intriga, e lo porta a coinvolgere in essa anche i piani alti della grande N, che si convincono a investire su di essa.
In una giornata primaverile del marzo 1987, settimane se non mesi dopo il suo incontro con Miyamoto, Shigesato Itoi riceve quindi una chiamata da Nintendo, in cui viene informato del finanziamento di un team di sviluppo che si occuperà della realizzazione del titolo: sta nascendo Ape Inc., lo studio che darà vita a “Mother”.
“Pollyanna (I Believe in You)”
I lavori sul gioco iniziano quasi subito. Itoi svolge un ruolo chiave nella composizione del team di sviluppo, per assecondare la sua più importante priorità di realizzare un sereno ambiente di lavoro, in cui ognuno può esprimere il proprio estro creativo all’interno del gioco, pur cercando di mantenere un riconoscibile filo conduttore dell’intera opera.
La storia si ambienta in una cittadina americana negli anni Ottanta, e vestiamo i panni di Ninten, un ragazzino di dodici anni che vive un’avventura che ripercorre gli stilemi dei grandi classici fantascientifici del momento.
Ogni singolo aspetto del titolo vuole avvicinare il giocatore alla narrazione, che sembra scritta proprio per poter far immedesimare qualunque adolescente si ritrovi con un controller in mano.
I protagonisti non combattono con spade o lance, ma con mazze da baseball e pentole, non si curano bevendo pozioni ma mangiando hamburger.
Non ci stiamo riferendo ad un grande capolavoro di scrittura, e nemmeno lontanamente del picco qualitativo della saga. Le limitazioni in cui è chiusa la storia del gioco incarnano quelli che sono i limiti tecnici del medium videoludico di questa generazione, ma nonostante questo, molti aspetti dell’avventura di Ninten spiccano rispetto alla concorrenza.
I personaggi non giocabili incarnano infatti il più forte tratto distintivo del gioco.
L’autore ha notato, nei dialoghi che caratterizzano gli altri giochi di ruolo, uno spasmodico bisogno di essere utili ai fini della progressione dell’avventura. Non viene mai data troppa attenzione ad un personaggio se questo non serve al giocatore.
In Mother, invece, viene data un’enorme importanza alle interazioni fini a se stesse, che non aggiungono nessun elemento di storia e non aiutano il giocatore a scoprire una nuova meccanica di gioco. Ognuno dei trecento personaggi non giocabili presenti ha la propria identità e vive la propria esistenza indipendentemente dal protagonista, e questo riesce a dare ampio respiro e vita al mondo di gioco.
Per comporre la colonna sonora del titolo vengono ingaggiati Hirokazu Tanaka, veterano Nintendo per cui ha composto la colonna sonora di molti arcade e alcuni titoli per home console e Keiichi Suzuki, caro amico di Shigesato nonché co-fondatore della famosa band giapponese alternative rock dei Moonriders.
Per l’autore, le tracce sonore del titolo non devono suonare come la tipica colonna sonora di un RPG, devono infatti avere una propria identità, devono essere qualcosa di identificativo, unico.
Dire che i due compositori abbiano compreso le parole del director sarebbe riduttivo.
Nonostante le varie difficoltà, soprattutto dovute alle limitazioni tecniche del Famicom con cui Suzuki non è abituato a lavorare, il reparto sonoro del gioco diventa subito iconico. Non è un caso, infatti, che molte delle tracce incluse in questo titolo, verranno riarrangiate e riproposte nei seguiti della saga con pochissime variazioni ai temi principali.
Lo spirito ribelle e audace dello stravagante immaginario creato da Itoi è interamente presente in un chip sonoro da 8-bit.
Dopo tutti questi elogi, sembra ironico parlare della componente ludica, che infatti, è forse l’aspetto del titolo invecchiato peggio.
Il gameplay non spicca mai in originalità, con un sistema di combattimento come se ne sono già visti parecchi.
Inoltre, la curva di difficoltà è talmente poco bilanciata che, in dichiarazioni successive al rilascio, gli sviluppatori stessi ammetteranno di aver incontrato molte difficoltà nel completare il gioco.
Nonostante le criticità, però, il gioco si lascia giocare regalando dalle venti alle trenta ore di esperienza di gioco di ruolo puramente giapponese.
Non interpreto sempre la mancanza di originalità del gameplay di un titolo come un vero e proprio difetto, ma in questo caso in particolare, è inevitabile sia un elemento che spicca in negativo rispetto all’incredibile estro creativo dimostrato in qualsiasi altro ambito.
E’ il 27 luglio 1989, e Mother esce sul mercato giapponese, diventando un successo per pubblico e critica. Le copie vendute lo classificano come sesto gioco più venduto dell’anno in Giappone, e Famitsu, rivista videoludica molto affermata su suolo giapponese, premia il gioco con un punteggio di 31/40.
Dov’è finito Earthbound?
Appena confermato il grande successo commerciale del titolo, Nintendo si mette subito all’opera nella realizzazione di una localizzazione in inglese da destinare al mercato americano, sotto il nome di Earthbound, dato che si pensa che il nome Mother possa non funzionare con il pubblico adolescente statunitense.
E’ il 21 Novembre 1990, ed esce in Giappone il Super Famicom, console che annuncia un salto generazionale per i videogiochi della grande N.
Per l’azienda, quindi, l’idea di un rilascio occidentale di Mother, titolo il cui comparto tecnico non dimostra più le attuali potenzialità delle console Nintendo, sembra non essere più una priorità.
Phil Sandhop, localizzatore per Nintendo of America negli anni ottanta e novanta, affermerà nel documentario Mother to Earth che una localizzazione completa del gioco in questo momento storico già esiste, ma che l’azienda stessa non vuole procedere con la commercializzazione.
Dopo una comparsa di una pubblicità del titolo su “Nintendo Power”, rivista americana dedicata alla grande N evidentemente nel mezzo di una campagna marketing per la sua uscita, questo scompare da tutti i radar, facendo nascere non poche domande ai lettori.
Nello stesso periodo, come raccontato nel documentario di cui sopra, viene recuperato dall’ignaro collezionista Greg Mariotti in un negozio statunitense, un prototipo di una cartuccia del gioco localizzato, che l’uomo aggiunge tempestivamente alla propria collezione, senza sapere realmente di cosa si trattasse. Anni dopo, all’inizio degli anni duemila, la cartuccia verrà venduta online, e il suo contenuto estratto e pubblicato su internet.
Per la prima volta, ironicamente, i fan occidentali potranno mettere mano su una versione disponibile esclusivamente in versione pirata, della localizzazione mai venduta del gioco.
La sua ufficiale commercializzazione internazionale, infatti, avverrà sotto il nome di Earthbound Beginnings il 14 Giugno 2015, ben ventisei anni dopo il suo rilascio in Giappone.
Il passo più lungo della gamba
Dopo il grande successo di Mother su suolo nipponico Nintendo non ha dubbi: è il momento che Shigesato Itoi ed Ape Inc. realizzino un sequel.
Lo sviluppo inizia durante lo stesso anno del rilascio del primo titolo, e in corso d’opera, i lavori vengono spostati dal Famicom al Super Famicom.
Il director riconosce infatti che la maggior parte dei problemi riscontrati con lo sviluppo del gioco fossero da attribuire alle opprimenti limitazioni tecniche della console d’uscita.
Più potenza di calcolo, nell’industria videoludica, significa inevitabilmente più libertà creativa.
L’apertura del vaso di pandora della nuova console Nintendo, comporta però non pochi ostacoli per il team di sviluppo.
I dipendenti non riescono a sviluppare sul nuovo hardware con la stessa efficienza del precedente, facendo diventare i lavori sempre più prolissi.
In un tentativo di risolvere la situazione, gran parte del team viene sostituita con del personale più capace a lavorare sulla console, che però deve essere formato e guidato per seguire dei lavori che sono iniziati già da molto, e questo finisce per allungare ulteriormente i tempi.
Di fatto, il gioco entra in tutto e per tutto in “development hell”, il limbo in cui la produzione di un videogioco non dovrebbe mai finire.
Passano gli anni, e l’ombra di una possibile cancellazione dei lavori sul titolo da parte di Nintendo diventa sempre più incombente.
Il director decide così, per salvare l’opera, di chiedere aiuto ad HAL Laboratory, studio di sviluppo di cui CEO Satoru Iwata, futuro presidente Nintendo nonché uno degli uomini più importanti e influenti della storia del videogioco.
L’uomo vede potenziale nel progetto, così accetta l’incarico, dividendo le task di sviluppo nelle due aziende.
Dove infatti APE Inc. continua a lavorare sulle mappature, testo e dati interni, HAL Laboratory si occuperà invece della programmazione del titolo, primaria causa del lento processo di sviluppo.
In questo modo, l’uomo, diventato ormai amico di Shigesato, riesce a salvare in calcio d’angolo il progetto, aiutando nello sviluppo fino al suo rilascio sul mercato.
“Smiles and Tears”
Il risultato di questo duro lavoro rappresenta per molti appassionati il capolavoro di Shigesato Itoi.
L’assurdo immaginario del primo titolo non sembra che una pallida imitazione di quello che Mother 2 riesce a dimostrare.
La chiave estetica è stravagante e riconoscibile tra mille, sfruttando con forte personalità l’hardware.
Gli sforzi che Hirokazu Tanaka e Keiichi Suzuki compiono nella realizzazione della colonna sonora dell’opera, uno dei titoli per Super Famicom con più tracce sonore in assoluto, danno vita ad un insieme di suoni che tutt’ora, nonostante le limitazioni del chip sonoro della console, superano in maniera egregia la prova del tempo. Alzare il volume del proprio dispositivo, durante una sessione di gioco, è una gioia per le orecchie. E’ proprio vero, Shigesato, non sembra di star giocando ad un RPG qualsiasi, sembra proprio di star giocando a Mother.
La narrazione del titolo, per quanto con una trama molto simile a quella del primo capitolo, grazie alla maestria di Itoi riesce ugualmente a diventare memorabile.
“Mi ha fatto realizzare quanto fallace sia stata la scrittura dei videogiochi fino ad ora. Vedere come anche cose profonde possano essere spiegate in un paio di righe ha avuto un impatto su di me, come lo ha fatto vedere un vocabolario utilizzato in un modo in cui non avrei mai saputo fare. Mi ha fatto scoprire che un buon lessico non si misura per quante parole complicate si conoscono. Penso che in questo, siano le parole più semplici ad avere la priorità.”.
Sono queste le parole di Shigeru Miyamoto, intervistato da Famitsu dopo aver giocato il titolo.
Le interazioni di Mother 2 hanno la capacità di racchiudere significati semplici o profondi in pochissime parole, dando la possibilità ai giocatori più maturi di riflettere su temi più profondi, senza che l’esperienza venga meno della sua tipica leggerezza.
Ognuno dei difetti inerenti al gameplay del primo capitolo è stato in qualche modo rivisto o risolto, grazie anche all’esperienza pregressa del team e a consulenze esterne, come quella di Miyamoto stesso.
Nessuna sezione prolissa di farming compulsivo, gli scontri con nemici più deboli vengono direttamente saltati. Niente più incontri casuali tediosi, gli avversari compaiono nella mappa di gioco, oltre che in combattimento.
Mi dilungherei su altre inedite meccaniche di gioco, come il sistema “pachinko” dei punti vita e il modo in cui questo influenza fortemente l’esperienza di gioco, ma sento che questa non sia la sede adatta.
Il gioco viene pubblicato, sotto gli occhi estasiati di pubblico e critica.
Diventa il decimo gioco più venduto su suolo nipponico dell’anno, con 510 mila copie vendute, e la rivista Famitsu premia il titolo con un punteggio di 34/40.
Questa volta, potrà l’occidente godere di questo successo?
Il Gioco che “Puzza”
Immediatamente dopo il successo del titolo, Nintendo inizia i lavori per un rilascio negli Stati Uniti, avviando, diversamente dalla scorsa uscita, una vera e propria campagna di marketing.
Il gioco si prepara ad uscire sugli scaffali americani il 5 Giugno 1995, nemmeno un anno dopo il suo rilascio in Giappone.
In questo caso, il problema è però da individuare proprio nella pubblicizzazione del prodotto.
Nintendo of America, infatti, sembra non aver compreso il titolo, legando ad esso una serie di pubblicazioni su riviste che fanno leva sul Gross Humor, un trend americano del momento, che si sposa male con il titolo di Itoi.
“Questo gioco puzza!”. E’ questa la frase con cui i giocatori occidentali conoscono per la prima volta la saga di Mother in maniera ufficiosa, insieme ad una serie di superfici puzzolenti sulle riviste.
Il gioco esce sugli scaffali con il nome Earthbound. Il titolo vende 140 mila copie, un risultato insoddisfacente dopo i due milioni di dollari investiti in campagna marketing. Questo è probabilmente da attribuire anche all’esclusiva vendita del gioco in un’edizione che include la guida ufficiale, che alza il suo prezzo di listino a settanta dollari, prezzo abbastanza alto rispetto alla concorrenza.
Il brand deve aspettare ancora anni prima di farsi conoscere per davvero dal pubblico. Il primo vero promotore internazionale del gioco, infatti, non è altri che Internet.
Numerosissime community nascono, trattando il gioco come una gemma nascosta, preservandone il valore artistico e culturale.
Così il titolo diventa un vero e proprio fenomeno di culto tra i fan, che cominciano ad analizzare pedissequamente i suoi contenuti, realizzando enciclopedie o vere e proprie esperienze giocabili inedite che hanno come base i file di gioco di Mother 2.
Ness, l’iconico protagonista del gioco, viene inoltre incluso nel picchiaduro cross-over Super Smash Bros., causando una notevole impennata della popolarità del franchise. Questa apparizione del personaggio rappresenta infatti, per la maggior parte dei fan, il primo vero punto di incontro con il franchise.
Earthbound… 64?
Corre l’anno 1994, e proprio come accadde per il suo predecessore, il successo di Mother 2 porta immediatamente Nintendo a finanziare lo sviluppo di un terzo titolo.
Iniziano quindi i lavori, senza nessun periodo di pausa tra un gioco e l’altro, portando a non pochi problemi.
Lo sviluppo diventa presto molto ostacolato, rischiando di far uscire il gioco dopo la fine del ciclo di vita del Super Famicom.
Così, viene deciso dal team di sviluppo di spostare i lavori sulla nascente Nintendo 64, che avrebbe aperto alla saga le porte delle tre dimensioni.
Sta nascendo Mother 3, conosciuto in occidente come Earthbound 64.
Il gioco prende presto una forma ben definita, tanto che Shigesato, in un’intervista con 64 Dream, rivela che tutti gli scenari del titolo sono già definiti e realizzati, lasciando da raffinare unicamente dettagli e personaggi.
Il gioco viene quindi mostrato nel 1999 da Nintendo allo SpaceWorld, una fiera annuale organizzata dall’azienda per mostrare al pubblico i propri prodotti, dove i giocatori riescono a provare per una manciata di minuti alcuni titoli, compresa la nuova fatica di Itoi.
Passano però gli anni, e da parte di tutte le personalità coinvolte viene mantenuto, perlopiù, il silenzio stampa.
Nintendo annuncia in maniera fugace una finestra di lancio per il marzo del 2000, che però non viene mantenuta.
I fan sono preoccupati, e a buon ragione, considerando il tempo di sviluppo del gioco che ormai ha raggiunto i sei anni.
Non c’è molto tempo per speculare sul destino del titolo, perché dopo non molto viene pubblicata una lettera scritta proprio da Shigesato Itoi in persona, che, amareggiato, confessa al pubblico la cancellazione definitiva del progetto, che era, all’oscuro dei fan, da molto entrato nel sopra citato “development hell”.
Le personalità coinvolte si esprimono sull’accaduto, Shigeru Miyamoto stesso si dichiara dispiaciuto di non essere riuscito ad aiutare il progetto, e Satoru Iwata è stato troppo impegnato nei suoi doveri da CEO di un’azienda sull’orlo della bancarotta, per avere il tempo di essere realmente coinvolto nei lavori.
La morte del progetto è da attribuire alle ambizioni fuori scala dell’autore. Gli obiettivi dati da Itoi, infatti, non consideravano gli sforzi necessari per raggiungerli; dopotutto, l’uomo non è un programmatore.
Si prende anche in considerazione di riprendere lo sviluppo del titolo sulla nuova GameCube, ma l’idea viene subito scartata.
Il defibrillatore di Mother 3
E’ il 2001 ed esce in Giappone il Game Boy Advance, la nuova console portatile Nintendo, che riaccende in Shigesato l’interesse nei confronti del medium videoludico, mettendolo al lavoro su un progetto minore.
In questi anni, Itoi si è già dilettato in un gioco di più piccole pretese e dimensioni rispetto alla sua saga principale, quando nel 1997 ha diretto la realizzazione di un piccolo gioco di pesca.
Viene quindi annunciato un porting/remake di Mother e Mother 2 per console portatile, sotto il nome di Mother 1+2.
Alla sorpresa dei fan di tutto il mondo, però, alla fine dell’annuncio del gioco in questione, l’autore annuncia la ripresa dei lavori su Mother 3, puntando a un rilascio proprio sul Game Boy Advance.
In questo caso, la realizzazione del titolo non preoccupa particolarmente. Dopotutto, un ritorno al 2D permette anche di ridurre notevolmente costi e tempi di sviluppo.
Ape Inc. è stata ormai chiusa dal 1995, e il titolo viene sviluppato interamente da Hal Laboratory e Brownie Brown Inc. (l’attuale 1-Up Studio).
Lo sfortunato titolo si prepara quindi finalmente al suo rilascio, salvato dall’amore del suo autore.
“Love Theme”
Viene annunciata da Nintendo una finestra di uscita del titolo che fa riferimento alla fine del 2005. Il gioco esce però il 20 Aprile del 2006, diventando immediatamente, come i predecessori, un colosso dell’industria videoludica giapponese.
Dei tre titoli della saga, questo è quello di cui si conoscono meno dettagli sullo sviluppo vero e proprio. Dopotutto, dai trailer della versione per Nintendo 64 era ben intuibile che il concept del gioco e la colonna sonora fossero già stati realizzati, dato che il materiale mostrato è arrivato in gran parte alla versione finale.
Considero personalmente una fortuna il cambio di hardware. Il rudimentale 3D che poteva donare il Nintendo 64 sarebbe inevitabilmente invecchiato molto peggio rispetto ad una sempreverde pixel art.
Durante la scrittura di questa monografia, mi sono trovato spesso in difficoltà nel riflettere su come avrei dovuto parlare di questo titolo.
L’intero scritto esiste unicamente per questo gioco, di cui necessito di parlare da molto tempo.
Mother 3 è incontrovertibilmente una delle migliori esperienze che mi sia mai capitato di vivere in ambito videoludico. Ho percepito la scoperta di un titolo monumentale di cui, ahimè, si parla fin troppo poco.
E’ quanto più necessario sia mai stato condividere e far scoprire la fatica di Shigesato, che rischia, pur comunicando valori fondamentali rispetto al concetto stesso di fare arte, di venire dimenticata.
La componente ludica del titolo va a raffinare semplicemente lo scheletro già funzionante di Mother 2, aggiungendo qualche dettaglio (come una peculiare componente ritmica all’interno del sistema di combattimento) per svecchiare il gameplay.
Proprio per questo, mi sento di dire che non è questa la componente che fa brillare particolarmente il gioco.
“Se vuoi realizzare qualcosa di memorabile, devi combinare quante più emozioni in una sola ambientazione. Non fare qualcosa di cupo soltanto per il gusto di farlo. Combina quelle emozioni con gioia contrapposta a tristezza e speranza. Questo è quello che attirerà le persone.”. Per quanto, rispetto all’uscita di questo gioco, l’affermazione dell’autore risalente alla sua carriera da romanziere sia abbastanza lontana nel tempo, sono del pensiero che incarni completamente ciò che rende il titolo così unico.
La narrazione di Mother 3, infatti, è completamente diversa da quella dei suoi predecessori.
Il gioco è divertente, ribelle come Itoi ha ormai saputo insegnare al suo target. Ma poi qualcosa succede, e lo stesso titolo diventa malinconico, drammatico… personale?
L’avventura di Lucas e comprimari gioca un ruolo chiave dell’intera esperienza, riuscendo ad inserire tematiche che raramente si ha il coraggio di affrontare in un titolo Nintendo.
Durante la storia si invita infatti il giocatore a riflettere senza mezzi termini su temi quali l’abbandono, il lutto, lo smarrimento, il capitalismo e l’immigrazione.
Non mi sto di certo riferendo al primo gioco di ruolo maturo nella storia del medium, dopotutto ci troviamo a metà anni 2000, non di certo agli albori dell’industria.
È paradossale però veder questo succedere mentre la saga riesce nell’ardua impresa di mantenere i toni leggeri come sono sempre stati, senza scendere in disperati monologhi e in una didascalica introspezione dei personaggi.
I protagonisti vivono, durante la loro avventura in un mondo fittizio, una serie di drammi analoghi a quelli che potrebbe aver vissuto chiunque durante la propria crescita, e per quanto questo succeda sotto gli occhi del giocatore, è raro che questo se ne renda realmente conto senza fermarsi a riflettere autonomamente sugli eventi mostrati a schermo.
Non è un’esperienza che porta il fruitore per mano durante tutta la sua durata, e va benissimo così.
La colonna sonora, di cui in questo caso il compositore è Shogo Sakai, è la più completa della saga fino ad ora, includendo, oltre a riarrangiamenti delle più iconiche colonne sonore dei precedenti titoli, numerosissime citazioni alla cultura pop musicale, e molte delle tracce migliori e più iconiche della trilogia.
Non riesco inoltre a non notare un fare meno scanzonato rispetto al passato. Le colonne sonore diventano dinamiche, le stesse melodie allegre diventano man mano più malinconiche, mentre Lucas deve affrontare il demone dell’abbandono.
Purtroppo il chip sonoro del Game Boy Advance non ha permesso ai giocatori di ascoltare le tracce alla qualità audio in cui sono state composte, ma fortunatamente sono ora disponibili su YouTube numerosissime ricreazioni in alta qualità fatte dai fan.
“It’s Over”
Dopo l’uscita del titolo e negli anni a venire, Shigesato Itoi è stato sempre molto chiaro: l’esistenza di Mother 4 è semplicemente impossibile.
L’uomo è fermamente convinto di aver raccontato tutto quello che aveva da manifestare al pubblico, decidendo quindi di fermarsi.
In un’intervista per la rivista giapponese Game Watch, l’autore afferma: “Sono contento che i videogiochi non siano la mia professione. Se lo fossero, sono sicuro che esisterebbero già il quarto e il quinto capitolo.”.
Sembra infatti assurdo ripeterlo in coda a questa monografia, ma Shigesato non è un autore di videogiochi. Non ha mai avuto nessun obbligo professionale a rimanere nell’industria, in cui è entrato per il puro gusto di farlo, senza nessun obiettivo in mente.
Forse è proprio questo che il suo unico e genuino modo di fare arte è diventato fonte di ispirazione per una schiera interminabile di fan accaniti e sviluppatori indipendenti.
Durante il precedente paragrafo ho volutamente omesso l’ingiustizia più nota legata al franchise. In data odierna, Mother 3 non è mai uscito dal suolo giapponese, e probabilmente non lo farà mai.
Per molto tempo la community ha cercato di trovare il motivo di questa decisione, ma non sembra che si avranno mai risposte concrete.
Nintendo non si è mai esposta in maniera chiara riguardo a questa decisione, che in questo caso non sembra trattarsi di una difficoltà di produzione o di una sconvenienza economica, quanto più di una vera e propria presa di posizione da parte dell’azienda.
Penso a questo, però, come un semplice dettaglio.
Niente di tutto ciò ha realmente impedito all’uomo, ormai definitivamente ritirato dall’industria videoludica, di diffondere le sue opere in tutto il mondo, per quanto ogni volta tutto è sembrato andargli contro.
Dopo appena un anno dal rilascio del titolo in Giappone, i fan si sono subito indaffarati nella realizzazione di un’edizione gratuita del gioco interamente in lingua inglese, che ancora una volta può essere giocata in occidente unicamente in maniera non ufficiale, di fatto, piratata.
“Quando Mother 3 arriverà in occidente, potrete giocarlo e notare quanto poco originale io sia.”.
L’affermazione rilasciata da Toby Fox, uno dei più acclamati sviluppatori indie moderni, in un documentario di NintendoLife, fa riflettere su quanto i giochi della saga siano influenti tutt’oggi.
La trilogia ha infatti causato la nascita di un vero e proprio sottogenere dei giochi di ruolo, che vanta di moderni titoli indipendenti con un enorme seguito, come Undertale, Deltarune, Omori, Lisa e molti altri ancora, che ricordano come Mother abbia fatto scuola nel riempire di vita i propri mondi di gioco.
Con una sola saga, l’artista è riuscito a influenzare l’intera industria, rimanendo nei cuori di chiunque è riuscito a provare anche solo un titolo derivato dalle sue opere.
L’artista ha attualmente settantasei anni, e continuando ad essere una figura giapponese molto nota gestisce il suo sito personale di merchandise e interviste.
Nonostante le frequenti domande della community, l’uomo risulta molto evasivo nel parlare dell’industria videoludica, di cui conferma spesso il suo abbandono.
Durante il mio approfondimento della saga ho imparato a conoscere l’autore e la filosofia che applica pedissequamente in ogni opera su cui mette mano.
Uscendo da un contesto puramente videoludico, sento di poter dire da essere umano di aver imparato molto di cui fare tesoro da Shigesato Itoi, anche se non abbiamo mai parlato, avendo interagito unicamente con un controller in mano.
E pensare che, dopotutto, è solo un copywriter.
Le informazioni presenti all’interno della monografia sono state reperite dalle seguenti fonti: le interviste tradotte dalla community di mother4ever.net, i documentari Mother to Earth e EarthBound, Usa. Sono state inoltre prese informazioni dai documentari dei canali YouTube Press Start to Continue e Nintendo Life