Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei Bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
O di vivere.
Rutger Hauer quando ha scritto queste parole si è scritto l’epitaffio, senza immaginare che sarebbe morto nell’anno in cui il film che l’ha consegnato alla gloria era ambientato: il 2019.
Noi nati negli anni 80 ci stavamo già abituando all’idea di essere colonizzati dai cinesi, di vedere davvero androidi con occhi fabbricati da loro nelle ghiacciaie delle macellerie e invece, l’unica cosa che sono riusciti a restituirci nel fatidico 2019 è un Virus in grado di estinguere un terzo dell’umanità a un passo dalla pensione… che culo (!). Poteva andare peggio, poteva piovere… ah ecco cosi avevamo qualcosa con cui mescolare i ricordi di quell’anno di merda.
Qui, nel 2024 manco si piange più, in questo tritatutto cibernetico, fatto di intelligenze artificiali, uteri in affitto, plastica e autotune, ogni tanto, riaffiora un impeto di coraggio. Che c’è gente che ancora si stupisce o prova meraviglia. C’è gente che ha coraggio di ridere. O piangere.
Mio padre da bambina mi raccontava di quando, con un contingente di militari era arrivato a Trieste, nel 1954, all’indomani dell’armistizio e mi parlava di cose che noi giovani non potevamo e non dovevamo nemmeno immaginare: uno sbarbatello di 21 anni catapultato dalla Barbagia più profonda a Udine, a Palmanova e poi in Istria, accolto da un contingente americano pronto. Spedirlo al confine con la Jugoslavia. No, io non me lo posso immaginare, ma mio padre lo raccontava davvero così bene che mi sembrava di vederli, quei soldati che si pisciavano addosso per non perdere l’avamposto. Che esorcizzavano la paura riconoscendo le costellazioni. L’unica cosa che gli era in un certo senso familiare. Pregando per non morire da coglioni, a guerra finita. Uno accanto all’altro sotto il cielo di Redipuglia; lontani dalla Sardegna, la Sicilia, la Calabria… con la radio, il fucile e la speranza in una firma.
In quel giorno del 1954, quando finalmente Trieste tornò all’Italia, questi sbarbatelli furono accolti come eroi, con bandiere alle finestre e canti e balli ad ogni angolo di strada. Ma la cosa che gli interessava davvero era il fatto che potevano finalmente mangiare, bere e fumare gratis, andare al cinema a teatro, dovunque, tutte le volte che volevano, per una settimana. Io questo proprio non me lo immaginavo, che avessero così tanta fame e sete. Non me lo potevo immaginare anche se quelli erano proprio gli anni della guerra del Golfo. Ma poi ho capito perché certa gente sceglie la natura e vi si rifugia come se fosse il bene più prezioso che ha. Non riuscivo ma ho imparato a spingere la mia immaginazione sempre più lontano fino a quando non mi sono vista anche io pronta a dire: “io ne ho viste di cose…” che tanto prima o poi questa frase la pronunciamo tutti… noi che stiamo vivendo in quest’epoca balorda, che è già fuori dall’immaginazione di molti.
Ognuno ha avuto o ha il suo mentore: il suo Tannhäuser. Ognuno ha visto cose che gli altri non hanno potuto immaginare. È accaduto quando si è sentito diverso, solo o emarginato. Quando ha dovuto comprendere quale era il cammino che doveva percorrere, quando ha trovato un ideale da perseguire. Quando ha scovato la sua stella di riferimento lì, forse nei Bastioni di Orione, e vi ha scoperto quella che si accende prima delle altre e dopo tutte le altre si spegne. Tutti abbiamo avuto, nel nostro armamentario, raggi B luminescenti, per affrontare il nemico, per rivelarci la via. Ci è rimasto da scegliere se varcare la porta, anche solo per scoprire di essere lacrime nella pioggia, attimi perduti del tempo nell’infinità del cosmo. E se attraversarla da umani o da automi.
Dov’era e chi, il vostro Tannhauser? Dov’è che vi siete trovati a fare i conti con i raggi b, quelli che squartano la materia e la decompongono fino a scindere l’atomo? Io li, a ridosso del futuro 2019 dopo Cristo.
Dopo il chiodo piantato sulla mano, a ridosso del dolore, quello profondo, che squarta l’anima. L’anno in cui la morte ha trasformato la vita in eternità. Io ero lì e guardavo, vedevo cose che altri umani, intorno a me non volevano vedere. Ed è iniziato un viaggio che mi ha portato un dono eccezionale. Quando vedi qualcuno che muore, gli porgi la mano e cerchi di riportarlo alla vita, perché la senti in ogni tua cellula, LA VITA. Che duri altri 100 anni o solo 10 minuti, non fa differenza. Tu capisci come non sprecarla, come non lasciare il resto. Così, al largo dei bastioni di Orione o su Betelgeuse. Su Istentales e sos Vakkeddos.
Il mio Tannhäuser era davvero un trovatore, non come quello di Wagner sulla via della redenzione, per intenderci; il mio era quello che andava a ballare e amava cantare: una vitalità e un’energia senza pari, un’inventiva strepitosa, un menestrello fiero e orgoglioso, mai scalfito dalle necessità, che sapeva ferire e curare con le parole. A volte le usava come un unguento medicamentoso per la mia anima, trafitta da mancanze forti, altre me le gettava addosso, come macigni che gravavano sulla mia immaginazione, la inibivano, la ancoravano, riportandola alla terra, alla materialità in ogni gesto. Mentre tutto diventava fisico, tremendamente vero. Così anche io, ho dato la caccia ai miei demoni, scandagliando me stessa per scoprire che in me c’era tutta vita. Troppa vita. Ero solo io a non crederci. Così ho dovuto cedere una parte di me al tempo e abbandonarmi alla paura per farla uscire fuori, accogliere la vita in me e trovare la forza di mandarla nel mondo con un pezzo del mio cuore che non tornerà mai più nel petto.