C’era, con la consapevolezza di non esserci. Layne Staley era un uomo intrappolato in se stesso, troppo fragile per reagire alle delusioni che la vita con ironia continuava a servirgli, decise senza remore di lanciarsi verso l’abisso più cupo e con ingordigia si fece inghiottire per poi essere digerito lentamente. L’ultima immagine di Layne è quella gracile, aggrappata alla sedia sul palco dell’Mtv Unplugged: lacero dalla droga nel fisico e nell’anima, si chiuse in se stesso ricoperto dal vittimismo tipico di chi combatte con le ombre urlanti, che affondano le unghie così in profondità da non poter essere più rimosse. Poi, il buio.
Era l’aprile del 1996 quando gli Alice in Chains furono ospiti di Mtv ed erano due anni e mezzo che praticamente non suonavano insieme dal vivo. Layne, ormai sguazzava sempre più nelle putride acque degli inferi visto che la sua dipendenza dall’eroina divenne assoluta, nefasta e totalmente irreversibile. Quello che si vede durante il live è uno spettacolo sconfortante. Il buio avvolge la sala e le prime note di Nutshell si diffondono. Un’anima rapita dai suoi demoni con un aspetto emaciato e magrissimo sta per farsi consumare dalla folla, lentamente si fa strada tra le luci soffuse delle candele ed appare vestito completamente di nero con grandi occhiali scuri e, probabilmente, terribilmente sconvolto dal fatto che sapesse ancora emozionarsi davanti a quel pubblico che lo accoglie con un boato da pelle d’oca. Accenna un ghigno per evitare di precipitare ancora una volta nell’umano. Nutshell scorre lentamente con la chitarra di Cantrell che incanta tutti mentre Layne, già dalla prima parola, lancia il suo ultimo disperato grido d’aiuto. Le emozioni fluiscono copiose, la solitudine, la disperazione diventano elementi vividi, quasi si toccano con le mani ed è possibile sentirne il respiro (We chase misprinted lies / We face the path of time / And yet I fight / This battle all alone) per poi arrendersi senza remore alla cruda realtà (No one to cry to / No place to call home).
Le parole di Layne sono la profezia di una fine già vista, digerita e stoicamente accettata, ma al contempo sono il tentativo ultimo di redimersi, portando agli altri il monito della propria esperienza (My gift of self is raped / My privacy is raked / And yet I find repeating in my head). Il mondo intorno si rivela improvvisamente patetico e squallido e quello che inizialmente sembra un uomo debole e insicuro lentamente, con la stessa agonia tragica delle crisi d’astinenza da manuale, cambia si trasforma e c’è un momento in cui questa drastica mutazione sembra dargli una sensazione di forza e benessere inedite. Ma poi quello che c’è sulla punta della forchetta, l’orribile verità, è la scoperta di aver covato dentro un mostro famelico che adesso è uscito e non può più rientrare in alcun modo e così, a testa bassa, Layne sussurra (If I can’t be my own / I’d feel better dead) e poi il tutto viene sommerso dal clamoroso assolo di Jerry Cantrell, che ti scava dentro e ti strappa l’anima.
L’odore, forse dolciastro, certo nauseante, senza ombra di dubbio orribile. Questo probabilmente è stato il primo dato sensoriale, che i soccorsi hanno registrato quando ne sono stati investiti, con la violenza di una ginocchiata allo stomaco, una volta entrati nell’appartamento al 4528 8th Avenue NE di Seattle, nel quartiere universitario. Il corpo senza vita di Layne Staley viene rinvenuto il 19 aprile 2002 in stato di avanzata decomposizione, irriconoscibile e desolato, dimenticato, come un paese dopo i bombardamenti. Layne Staley era una casa dalle pareti marce, col tetto crollato, in una notte di un lungo inverno del nord mentre dal cielo piove sangue e una coltre di suoni distorti copre distanti invocazioni d’aiuto. C’era, con la consapevolezza di non esserci.
A Layne Staley, a tutte le battaglie perse e vinte. A chi si perde senza mai più trovare la strada della redenzione.