Prima di un’estate è il primo estratto dal nuovo album di Roberto Sarno in uscita a fine agosto. SOund36 ve lo presenta in anteprima.
Roberto Sarno sulla canzone: “Lei amareggiata e afflitta, lui distrutto e quasi inconsapevole. Una storia come tante di due vite che improvvisamente si riempiono del vuoto che è stato tra loro. Il confine indefinito tra la felicità e l’angoscia che rimane un tormento latente per sempre. Il fallimento di un progetto di vita insieme, implacabile e così presente da causare l’incapacità di costruire qualcosa di nuovo.
La svolta negativa che affligge, che logora e che tuttavia, nel profondo, viene avvertita come un sano istinto di sopravvivenza pulita.”
Una pioggia sottile è il terzo album di Roberto Sarno, musicista toscano di adozione che dalla fine anni ’80, prima con i Dive, e dopo attraverso altri progetti, collaborazioni e produzioni per altri artisti, si è segnalato nel panorama indipendente italiano per la sua capacità di fondere il suo sound writing personale e creativo e senza barriere di genere, esplorando anche l’elettronica, proponendo concerti sia elettrici che acustici, ma sempre più rivolti alla ricerca dell’emotività e dell’istinto.
Composto e registrato tra il 2020 ed il 2024, Una pioggia sottile consolida la collaborazione con Marco Mafucci e prosegue la ricerca di un nuovo e personale approccio alla composizione e attraverso sonorità che abbraccino il suo cantautorato alternativo.
Una pioggia sottile in uscita a fine agosto per Radici Music Records e preceduto dai singoli “Prima di un’estate” e “Ogni notte a Milano”, è un disco complesso e sofferto che racchiude le emozioni forti di un’epoca vissuta tra avvenimenti che hanno impattato l’umanità, come i disastri ambientali, la pandemia, la guerra in Europa e i fenomeni sociali come il flusso dei migranti verso i paesi occidentali. I testi descrivono alcune storie in questo contesto, con un filo conduttore che passa attraverso l’elaborazione di un lutto e l’attaccamento alla vita.
Roberto Sarno racconta così la nascita di “Una pioggia sottile”:
Ho cominciato a maturare l’idea di un nuovo album alla fine del 2019, quando avevo da poco pubblicato “Prova Zero” e con Marco Mafucci l’affiatamento sul progetto si era ormai fortemente consolidato. Da allora abbiamo intrapreso insieme una tormentosa ricerca di un nuovo avvicinamento alla composizione, alla strumentazione e alle sonorità. L’epoca pandemica ha creato le condizioni per un approccio alla composizione di totale chiusura e di isolamento. Per mesi ci siamo scambiati file audio che ognuno di noi registrava chiuso nelle proprie intime sperimentazioni, poi finalmente ha preso la meglio una direzione chiara, il connubio tra le sovrapposizioni sonore digitali di Marco e la mia chitarra acustica, elemento per me necessario per avere un appoggio alle parole che avrei scritto. Successivamente il piano ha affiancato o sostituito la chitarra, talvolta nella ricerca di un tessuto armonico più complesso. Tutto il resto è il frutto dell’ispirazione rincorsa in lunghi pomeriggi invernali in studio, dove montavamo, smontavamo e riassemblavamo stralci di suoni e giri armonici incondizionati.
Abbiamo lavorato moltissimo sulle sonorità, sia dei campionamenti digitali, che degli strumenti reali e analogici. Volevamo che ogni cosa portasse dritto verso l’obiettivo che avevamo identificato.
In tutto il percorso eravamo affascinati proprio dalle miscele sonore che riuscivamo ad ottenere con l’uso di moduli synth analogici tipo Moog e Behringer, software digitali come Ableton Live, il software di registrazione Protools che usavo come un vero e proprio strumento musicale, la Martin 000-28 asciutta e tagliente, la Telecaster e la Stratocaster, la Les Paul e la 335, tutte passate dal Twin Reverb per avere sempre timbri netti e avvolgenti. Suoni a volte caratterizzati da filtri digitali, pedali analogici, e-bow, sassofoni soffiati e filtrati, insomma ogni idea che si presentava trovava il suo spazio.
Per costruire alcune basi ritmiche ho usato Garage Band, i groove che poi sono stati sostituiti con la batteria acustica di Alessandro Chiavoni, un giovane batterista talentuoso che abbiamo scoperto per caso in un concerto dove accompagnava una cantautrice delle nostre parti. Alessandro ha portato un contributo sostanziale al groove di certi pezzi. In altri casi ho suonato un rullante, un ride o un crash, uno shaker o un cembalo, li ho campionati, li ho filtrati e poi li ho messi a tempo e li ho looppati. Mi affascinava giocare in equilibrio tra il suonato a mano, l’acustico e il digitale. Ci siamo sentiti liberi, liberi di osare, svincolati da quelle regole che influenzano un artista quando ha paura di non piacere, quando teme di uscire con delle cose che non funzionano. Non ci interessava che quello che stavamo facendo rispondesse a dei criteri di moda o di modernità, avevamo ormai sdoganato il tentativo di appartenenza, eravamo solo noi e le nostre personalità dentro quelle tracce. Nel corso della realizzazione e la registrazione ci siamo orientati anche a delle collaborazioni esterne, necessarie per concretizzare le nostre idee. Come dicevo Alessandro per la batteria, Massimiliano Conticini al basso, Saverio Zacchei al trombone e Ivan Elefante alla tromba e flicorno. E poi i miei figli, ognuno di loro ha suonato o cantato qualcosa. Ho registrato quasi tutto nel mio studio a parte la batteria acustica e gli ottoni ospiti. Ho lavorato molto anche sull’allestimento dello studio, volevo che avesse i criteri per fare emergere le caratteristiche sonore che stavo cercando. Mi sono confrontato con un vecchio esperto come Gianni Bambagiotti e il mio fonico di riferimento Paolo Alberta, ma talvolta ho fatto delle scelte in controtendenza, per certi versi azzardate, sulla selezione della strumentazione di ripresa e di ascolto. Chi mi consigliava non sempre era d’accordo sulle mie decisioni, ma alla fine ho ottenuto quello che cercavo. Un obiettivo personale, discutibile, ma quello che volevo. In ultimo, registrata la musica, mi sono concentrato sulla voce, chiedendomi come evolvere e come esplodere lo stile che avevamo individuato. Era necessario uno stacco di stile rispetto al passato e onestamente ho passato qualche notte insonne prima di trovare la direzione. Ho selezionato alcuni cantanti e li ho ascoltati a fondo, uno studio per capire come usare la voce, come avvicinarmi al microfono, come individuare il registro vocale più idoneo. Le voci sulle quali mi sono soffermato maggiormente sono state quelle di Justin Vernon, di Matt Berninger, ma anche di Anna B Savage o di Billie Eilish. I testi sono venuti durante tutto il corso della stesura dell’album e fino dalle prime bozze il filo conduttore è rimasto costante e inesorabile. Sono stato fortemente condizionato dagli avvenimenti e dalle esperienze personali di questi anni, oltre che da ciò che è successo nel contesto ambientale e sociale. Il tema di cui ero portato a scrivere era quello dell’attaccamento alla vita e della connessa contrapposizione con la morte.
La perdita di una persona cara, la sciagura della pandemia e gli scellerati omicidi razziali, il tormento dei migranti annegati vicino alle nostre coste, la catastrofe del terremoto in Turchia, l’autolesionismo di un alcolista, l’abnegazione e la rinuncia a sé di uno studente demoralizzato, un tradimento diventato un incubo e il fallimento di un progetto di vita insieme, i disastri ambientali, un contesto politico esiziale… insomma l’ossessione di contrapporre ad un lato oscuro il più sublime valore della vita. Sono gli anni che ho vissuto nell’elaborazione del lutto, il trascorso che mi ha portato dall’esperienza della perdita all’accettazione. Ho osservato il mondo circostante, cogliendo gli elementi correlati alla mia fissazione e ho trascritto il loro risvolto personale nei testi delle canzoni.