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“Perché scrivere poesie al giorno d’oggi?” (…e di come Apollo potrebbe finalmente prendere Dafne… )

Scritto da Beatrice Pascali

“Avrebbe potuto essere famosa, ma non faceva per lei. Aveva il talento e il carisma giusti per la fama, ma non gli è mai interessata. […] Sembrava vivere in uno stato di ininterrotto stupore e incoraggiava gli altri a fare altrettanto. Non insegnava come si scrive una poesia, ma piuttosto perché farlo: per la meraviglia. Per quella contentezza ostinata. Suggeriva di vivere la vita in modo creativo, così da potersi difendere dalla spietata fornace del mondo.” E. Gilbert, Big Magic

La mente creativa che scompone e ricompone idee, linguaggi, immagini, è una sorta di condanna. Allo stesso modo di un border collie, il principe dei cani da lavoro, la mente creativa, se non è impegnata a creare, per converso dovendosi per necessità interiore impegnarsi in qualcosa, se non lo fa, appunto, creando, lo farà distruggendo qualcosa: in genere sé stessa, qualcun altro, la relazione.
Ma poi arriva quel momento, una folgore nello spazio e nel tempo che appare come un fulmine nella notte, in cui si manifesta una energia inconsapevole di sé stessa che questa potenza poietica attiva come un crampo che si può sciogliere solo mettendosi a correre.
Osservando l’Apollo e Dafne di Bernini ho cominciato a chiedermi dove risieda tanta bellezza: se in Dafne, disposta a farsi albero pur di non esser presa o in Apollo, ostinato a non accettare un rifiuto: “… la tua bellezza vieta che tu rimanga come vorresti, al voto s’oppone il tuo aspetto” (1).
Di recente ho avuto modo di ammirare nuovamente il gruppo scultoreo in compagnia del ‘Dafne’ a me toccato in sorte (“… che nemmeno il nome d’amore vuol sentire”[2]) e per la prima volta mi sono accorta di non guardare una statua, ma di essere entrata dentro una storia, di cui si narra un solo attimo che vale un racconto intero e dove la perfezione assoluta delle forme ha unito in eterno ciò che voleva essere separato.
Contemplare questa meraviglia ha il potere di restituire la pace a un occhio inquieto. L’eterna dinamica del gioco fuga-rincorsa ha ispirato una mano sapiente a restituirci non l’inizio della fuga, non la trasformazione ultimata, bensì – forse come una speranza – quel momento intermedio che lascia emergere tutta la protervia della ninfa che non vuole sentirsi preda e il desiderio invincibile del dio che brama cotanta beltà.
Il mito ci racconta che neanche un dio può vivere senza quell’anelito che lascia comunque entrambi liberi di correre verso il proprio destino. Ed è proprio questa corsa affannosa che Bernini ci racconta e questa incoercibile pulsione dell’animo.
Chi avrebbe torto e chi ragione, dei due, secondo i canoni moderni che tutto ci obbligano a far rientrare in categorie di diritti e difese? Per fortuna Bernini ce lo racconta nel 1625 e ci propone anche un’altra lettura.

Guardiamo da un’altra angolazione – e non è metafora – le braccia levate di Dafne che qui senza vederne il volto ci illudono per un istante che sia possibile una resa alla morsa di Apollo, invece che alle dita che si stanno facendo fronde.
A osservare da davanti la vergine ritrosa e fuggitiva descritta dal Marino (3), ci colpisce lo sgomento di lei evitando la bocca che la sfiora. Da quest’altra prospettiva meglio cogliamo invece l’abbandono, ci sentiamo quasi abbracciati insieme a lei da quella mano sul ventre e avvolti in quei drappi gonfiati in corsa dal vento. L’estremo slancio vitale dell’acceso Dio porta invece a irrigidire un’esistenza che trova il suo culmine nell’ultimo inarcarsi nelle membra della ninfa. Ma si sa, gli artisti hanno più pietà degli uomini comuni e almeno nel sonetto alfine il dio l’abbraccia e la bacia, nonostante lo strazio che ella fa della sua carne:

Vede il bel piè radice, e vede (ahi fato!)
che rozza scorza i vaghi membri asconde,
e l’ombra verdeggiar del crine aurato.
     Allor l’abbraccia e bacia, e, de le bionde
chiome fregio novel, dal tronco amato
almen, se ’l frutto no, coglie le fronde.

Non confondiamo però in questa narrazione il dio greco con un satiro qualunque che rincorra una ninfetta a caso. Un dio stravolto nell’amaro constatare che tutti i suoi poteri e le sue sovranità a nulla servono di fronte a lei: “Rifletti però a chi è che piaci! Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non sto qui a fare il rozzo guardiano di mandrie e di greggi. Non sai, sciocca, non sai chi fuggi, e per questo fuggi. Io sono il signore della terra di Delfi, e di Claro e di Tènedo e della regale Pàtara. Giove è mio padre! Io sono colui che rivela il futuro, il passato e il presente, sono colui che accorda il canto al suono della cetra. La mia freccia è infallibile, sì; una però è stata più infallibile della mia, quella che mi ha ferito il cuore sgombro. La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo mi chiamano guaritore ed ho in mano i poteri delle erbe. Ahimè, però, che non c’è erba che guarisca l’amore, e la scienza che giova a tutti non giova al suo signore!” (4)

Nell’immagine successiva sembra quasi di riuscire a vedere da un’ulteriore angolazione la veemenza di queste parole che si trasfondono – anzi si “inventrano”, come direbbe Dante – nella presa con cui la afferra: perché in effetti è proprio addosso a lei che si scarica l’energia della corsa di Apollo, quasi trovasse appoggio nelle fronde cingendola al ventre. Questa prospettiva ci illude per un secondo che il dio sia pronto a consustanziarsi in questa folle metamorfosi pur di fondersi con lei.
Così si difende Apollo che, candido, argomenta: “ma io t’inseguo per amore!”. Ma si sa che i sentimenti degli dei olimpici sono come le parole da scrivere nel vento e nell’acqua del noto carme di Catullo.
Eppure Ovidio lo chiama “amore”: Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia. Un amore che accetterà di trasformarsi assecondando il volere di Dafne.
Nella mia mente questa statua invece è la raffigurazione, più che dell’amore, del desiderio.
[De-sidera: che proviene dalle stelle / sīdŭs – sideris: astro, stella, corpo celeste] De-siderare porta con sé il senso di fissare attentamente le stelle (5) o, volendo considerare il de- un prefisso con valore di allontanamento, quel distogliere lo sguardo dalle stelle genera la mancanza della cosa che ci attrae, dell’oggetto del nostro desiderio.
Il desiderio proviene dunque dalle stelle, e allontanarsi da esso provoca uno stato di inquietudine, nostalgia, mancanza… ma anche slancio, forza vitale di attrazione, contemplazione di una meta, individuazione di un percorso verso un obiettivo. Mi rendo conto che deve essere tutto questo l’incanto di guardare le stelle.
Il desiderio promana quindi dal cielo verso la terra, come Beatrice per Dante: “…par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare” (6). Sappiamo infatti che Beatrice (nomen omen, mia dannazione eterna) altri non è se non la sua ispirazione poetica. Ciò significa che la forza che ci attrae non risiede qui tra noi, ma fino a noi discende per mostrarci il miracolo della via per raggiungerla.
Se Dante, sopraffatto dalla sua stessa ispirazione, aveva bisogno della sua Musa, anche Apollo, dio che presiedeva a siffatte mirabili cose – il sole, la musica, le arti mediche, le scienze, l’intelletto, la profezia – pareva non poter fare a meno della ninfa prescelta.
E se Apollo avesse cercato un modo per starle accanto senza che lei si mutasse in un tronco? Il mito narra che Dafne, trasformata in alloro, diverrà l’albero consacrato ad Apollo e sarà in eterno simbolo del dio, non più della ninfa (come il lauro/Laura di Petrarca). Bernini potrebbe averci lasciato così una flebile speranza in un diverso finale, raccontandoci un attimo di quella agognata fusione… o la gioia di assistere a questo rituale d’amore dal finale non scontato.
Nella bellezza di quell’attimo Bernini ci restituisce ben più del racconto di una fuga da un atto predatorio: ci riporta il miracolo della creazione artistica, l’impeto di un’attrazione irresistibile per cui si è disposti a tutto, perché entrambi i contendenti si spogliano di sé stessi: Dafne, disposta a perdersi, Apollo costretto a deporre la sua divinità che a nulla gli vale; lei gli resterà legata in eterno, lui trasformerà la sua brama incarnando in sé l’immagine che d’ora in eterno lo rappresenterà, talmente fusi e compenetrati che lei sarà simbolo di lui.
“Simbolo”, segno dal quale si riconosce qualcosa: composto da σύμ- syn (con) e βάλλω ballo (getto): metto insieme, conchiudo; qualcosa che è capace di suscitare nella mente un’idea, unità profonda, metafisica, che fonde significante e significato.
Quale più alta vetta di creazione artistica di questa statua che cattura un attimo preciso, come accadde a Goethe, al quale lo stupore di un istante, l’attimo della sua entrata a Roma da Porta del Popolo, fece dire: “Fermati, attimo! sei così bello.” [Verweile Dich! Du bist so schön.] Se si smette di desiderare (7), si tradisce il desiderio nella sua natura, perché il desiderio deve essere lasciato libero nella sua natura e nel suo mistero, perché nulla ha a che fare con colui che desidera, bensì con l’altro che lo provoca.
Il desiderio per sua natura è insaziabile, perché è pura forza di attrazione; perché si può saziare solo un bisogno (fame, sonno).
Il desiderio è infinito perché lascio l’altro libero e tuttavia non lo lascio solo nell’essere altro da me: è il “Ti riconosco” che si gridano Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva nella loro distanza epistolare, nel loro non incontrarsi mai eppure trovarsi “al centro del sempre”, lo spazio dove non ci si può perdere, anche nel nostro morire.
Il desiderio è qualcosa per cui vale la pena vivere, perché viene prima di me, va oltre me ed è più grande di me. Non è collocato qui fra i mortali.
Come si chiami invece qui su questa terra, lo lascio dire al collega di Bernini, Michelangelo, che un secolo prima così scrisse, nella Rima 107:

Gli occhi miei vaghi delle cose belle
e l’alma insieme della sua salute
non hanno altra virtute
c’ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.
Dalle più alte stelle
discende uno splendore
che ’l desir tira a quelle,
e qui si chiama amore.
Né altro ha il gentil core
che l’innamori e arda, e che ’l consigli,
c’un volto che negli occhi lor somigli

 

  1. P. Ovidio N., Metamorfosi, I 452-567
  2. ibidem
  3. Giovan Battista Marino, La Trasformazione di Dafne, 1913
  4. Ovidio, op. cit.
  5. In Vocabolario etimologico della lingua italiana http://www.etimo.it/?term=desiderare
  6. Dante Alighieri, Rime, XXII – Tanto gentile e tanto onesta pare
  7. Massimo Recalcati, Lessico amoroso, Rai 3
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About the author

Beatrice Pascali

Linguista, traduttrice, criminologa e grafologa giudiziaria; esperta in Psicolinguistica Forense e membro dell’Associazione “A Pista Fredda” della Dott.ssa Roberta Bruzzone per la risoluzione di cold case

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