Recensione a cura di Marco Restelli
Intervista Annalisa Michelangeli
Chi ha già letto qualche mia recensione sa che mi piace raccontare la musica, che ascolto sempre con passione e curiosità, più descrivendo le emozioni che mi ha regalato che non soffermandomi su dettagli tecnici, che lascio volentieri ad altri esperti del settore. Un paio di mesi fa mi sono imbattuto un po’ per caso in questa band italiana, di base a Venezia, ma con un cospicuo seguito anche all’estero grazie al suggerimento di un’amica della redazione di SOund36, Annalisa Michelangeli che aveva postato un loro video sui social. Come spesso accade, mi sono incuriosito e devo dire che subito il brano (si trattava del primo singolo “Regicide”) mi ha avvolto con il suo vortice ipnotico fatto di energia rock e ritmo incandescente. Il suono è stratificato (consiglio l’ascolto con le cuffie o un buon impianto per cogliere dettagli e sfumature che qui fanno veramente la differenza) da tappeti di tastiere e chitarre elettriche che, insieme, riescono a costruire un muro di grande solidità estetica.
Il nuovo disco “The Uncanny Extravaganza”, uscito il 30 maggio 2025 non delude le aspettative che legittimamente mi aveva regalato il succitato episodio e che, piazzato proprio in apertura, funge da fedele portabandiera di tutto quello che seguirà. Dopo un bel cazzotto rock ben assestato nello stomaco, che piacevolmente ti colpisce con “Crime Wave”, ecco che l’atmosfera diventa più morbida con la spirale onirica di “Breathe Me In”. La canzone ha una coda essenzialmente strumentale che per stile e melodia ricorda fortemente i brani dark della band di Robert Smith. Una vera chicca.
Ma i richiami alla musica di altri artisti potrebbero essere molteplici, come ad esempio lo stile di cantare di Fernando Nuti (autore, o coautore, di tutti i pezzi) che in diversi passaggi (la conclusiva “Final Mission” su tutte) mi ha ricordato quello di Ian Brown degli Stone Roses, così come il già citato approccio – che vede un costante intreccio di riff di chitarre – mi fa pensare a band come i My Bloody Valentine o ai mitici Ride che furono i pionieri dello shoegaze. A scanso di equivoci va detto che, pur con i richiami citati, la musica dei New Candys non è immediatamente sovrapponibile a null’altro, mantenendo un invidiabile livello di originalità. Tornando ai vari brani, quello che preferisco, e qui mi riaggancio all’iniziale richiamo alle personalissime emozioni, è senza dubbio “Gills On My Lungs” che ritengo anche il più radiofonico dei 10 della track list, grazie a una melodia decisamente accattivante e alle doti della band che escono fuori al meglio.
Prima di recensire “The Uncanny Extravaganza” mi ero immerso nel precedente “Vyvyd” dal titolo certamente misterioso, ma anche musicalmente piuttosto interessante e devo dire che l’esplicita intenzione da parte del gruppo di ottenere un salto di qualità, affidandosi alle mani esperte del produttore Maurizio Baggio, ha portato dei buoni frutti.
Un disco che lascia ben sperare per il futuro quindi, soprattutto se rimarrà sempre questa voglia di sperimentare e di evolvere, album dopo album. A mio avviso resta il segreto per restare il più possibile sulla cresta dell’onda e mi auguro che la band sappia custodirlo a lungo.
Intervista ai New Candys
a cura di Annalisa Michelangeli.
Vorrei partire dal titolo dell’album: cosa esprime rispetto ai pezzi, cosa racchiude?
Rispetto ai pezzi, dovrebbe esprimere varietà: l’extravaganza è uno spettacolo variegato, mentre l’uncanny è il minimo comune denominatore della nostra musica, non solo in questo album, ma da sempre. L’uncanny è il perturbante, il misterioso.
Come è stato il processo compositivo di “The Uncanny Extravaganza”?
Anche il processo compositivo è stato variegato e proprio per questo, il titolo si adatta bene all’album. Alcuni brani li avevamo pronti da tempo, ma solo ora siamo riusciti a chiuderli. Un paio di canzoni presentano parti scritte in momenti molto distanti tra loro: ad esempio, il primo verso di Night Surfer risale al 2018, mentre lo strumentale del ritornello è dell’anno scorso. Regicide è nata da Dario e poi lavorata da tutta la band. Ogni brano di questo album ha una storia diversa.
Rispetto agli album precedenti, ci sono state differenze nella scrittura dei brani? (testo e musica).
La principale differenza è che questo album è stato lavorato nei nostri home studio: ci scambiavamo i progetti tra di noi e, così facendo, abbiamo lavorato agli arrangiamenti tutti assieme, a volte anche trovandoci e suonandoli dal vivo. Poi, in studio con Maurizio Baggio, siamo partiti da questi progetti e li abbiamo migliorati. I testi, come spesso è capitato anche in passato, sono stati completati man mano che l’artwork del disco veniva finalizzato.
Finora quale pezzo del disco vi piace di più suonare dal vivo e come sta procedendo il tour?
Regicide, sicuramente, ma anche Cagehead, che è il brano di apertura nella nuova scaletta. Il tour sta procedendo molto bene, è sicuramente il nostro miglior tour europeo di sempre. Non vediamo l’ora di andare in Australia e Nuova Zelanda e poi riprendere il discorso Europeo in tutte le città che non abbiamo ancora toccato.
E in chiusura, una curiosità: a cosa rimanda l’immagine di copertina?
È bello lasciare libera interpretazione, quindi qualsiasi lettura è valida.
Possiamo dire che il tema più presente nell’album è l’acqua e come questa spesso rappresenti un’altra dimensione: avversa all’uomo, ma anche onirica, dove visivamente le cose si deformano per la rifrazione della luce. La statua della sirena forse può rimandare alle statue religiose. Probabilmente, in tutto questo, ci sono i rimandi che la copertina può suggerire.