Interviste

Michelangelo Severgnini, Intervista

Scritto da Michele Tarzia

Michelangelo Severgnini è un documentarista nomade, che si racconta a SOund36

Incontro Michelangelo a Reggio Calabria in occasione di un suo piccolo tour cinematografico tra Calabria e Sicilia, in cui porta con sé il suo nuovo documentario Schiavi di riserva (2018). L’evento a cui è stato invitato è Focus Libia, organizzato da due associazioni culturali, Catartica Care in collaborazione con Magnolia all’interno della rassegna “Dalle Radici alle ContaminAzioni” nello spazio di Laboratorio Radici. Nel mentre, una sera di novembre ci mettiamo a chiaccherare sulle sponde dello stretto, in riva al mare, e insieme ad altri amici inizio a fargli qualche domanda.

Vittorio De Seta affermava: la “realtà” differisce dalla “verità”. Secondo te in che modo, questo pensiero, si pone davanti allobiettivo della storia o dei fatti che narri? Penso appunto al tuo documentario Schiavi di riserva, che in qualche modo “documenta” attraverso delle interviste, le storie di tre ragazzi migranti schiavi nelle carceri in Libia.
Penso che il documentario sia composto da due elementi importanti. Il primo, come dici tu, è la realtà. Il secondo è lo sguardo sulla realtà. Molto dipende da chi è il titolare di quello sguardo.
La realtà, soprattutto in certe dinamiche, porta con se una verità, ma è chiaro che il documentario è uno sguardo, quindi tu (spettatore) della realtà cogli solo una parte, al massimo ne puoi interpretare lo spirito, puoi provare a rappresentarla. Quello che cerco sempre di fare è di avere uno sguardo il più onesto possibile, renderlo evidente. Non mi piacciono quei lavori dove si cerca di essere più oggettivi possibili. Nel mio caso mi piace subito dichiarare il punto di vista. Mi sembra più corretto.
Produrre oggi a livello culturale, diventa semplicemente riempire degli spazi, che per lo più sono determinati dal mercato, dai soldi che puoi far girare intorno al tuo prodotto. È difficile mantenere un’onestà (artistica) oggi, perché c’è mancanza di indipendenza, di rispetto nei confronti degli autori.
Spesso mi ritrovo a raccontare storie che si trovano nelle cosiddette “zone calde” e lì, in qualche modo, divento portatore di una narrazione, non ponendomi mai l’obiettivo di convincere le persone. Il mio compito è quello di farle pensare due volte. Quando riesco in questo, soprattutto su argomenti sul quale già si pensava di avere una propria opinione, io come autore penso di ritenermi già soddisfatto. Poi mi piace che ognuno abbia uno spirito critico per capire che quella realtà raccontata da me viene da questo punto di vista e poi te la vedi tu con la tua coscienza.


Schiavi di riserva (2018) – Un frame del film

Parlami del progetto Exodus.
Mi sono accorto in questi mesi – come se il fato mi abbia fatto un regalo enorme – di aver scoperto il modo di entrare in contatto con i migranti in Libia che usano internet. Poi mi son reso conto, guardandomi indietro, che è da vent’anni che cerco di fare proprio questo, e cioè di farmi raccontare i fatti da chi li vive, li subisce, li attraversa, da chi fisicamente ci sta dentro e che ne ha più diritto di altri a parlarne. La prima volta successe quando ci furono i bombardamenti in Jugoslavia e sul Kosovo nel 1999. Proprio in quel periodo, sul finire del 1998, ero stato in Kosovo a fare il “casco bianco” e lì conobbi molti ragazzi del luogo. All’epoca non c’erano internet o i social media, bensì solo i numeri di telefono di casa e questi erano i miei contatti con loro.
Quando scoppiarono i bombardamenti li contattavo a casa e chiedevo di raccontarmi come andavano le cose e proprio in quel caso cominciai a raccogliere i messaggi che mi arrivavano, trasmettendoli via radio. La stessa cosa ho fatto in Algeria nel 2011-12, a Baghdad nel 2004, poi in Siria, in Turchia, Napoli e in Libia. La cosa interessante di Exodus è che ho la possibilità di vedere la Libia attraverso gli occhi dei migranti. Visto che sono loro a soffrire, penso che non ci sia punto di vista più interessante che sentirsi raccontare i fatti, proprio perché sono loro, in prima persona a viverli, e di sicuro, avranno (forse) pensato a una soluzione per uscire dal quel dramma. 
Exodus è proprio questo.  Riferendomi a una frase a cui ho pensato alcuni giorni fa, “i migranti in Libia dovrebbero essere riconosciuti come soggetto politico e non come oggetto di politiche”, proprio perché la politica dovrebbe partire dai bisogni delle persone. Mi rendo conto, per tanti motivi, che Exodus è un progetto controverso. È da vent’anni che cerco di fare questo – e non dico che è un cerchio che si chiude – ma è come un “fiume carsico” che va sottoterra e poi risale e in cui mi ci riconosco.

Dove sta la differenza tra il filmare come “atto di documentazione” e il filmare come “atto morale”?
Questo meccanismo è stato spiegato da Susan Sontag nel libro Davanti al dolore degli altri (Mondadori, 2013), è praticamente fa sì che la sofferenza tocchi e ti faccia perdere alcune corde dell’anima e ti fa perdere il ragionamento logico. Tutto ciò è sicuramente legato alla sensibilità che ognuno di noi ha in quel determinato momento. Il guaio più grosso, però, è che tu colpisci lo spettatore in un punto dove normalmente non ha alcuna ‘arma’ per difendersi.
Quando racconti delle situazioni, molto spesso si pensa che tu abbia documentato un fatto. Ma non è così, perché la videocamera, al contrario di quanto ci si immagina, fa il lavoro opposto. Quando si filma, il campo visivo dell’obiettivo è ridotto. Automaticamente la percezione dello spettatore viene sviata, e non si percepisce tutto ciò che accade intorno a quella porzione di inquadratura. In questo senso è molto importante l’utilizzo che il regista fa della videocamera, dove la posiziona e cosa filma.

Un’ultima domanda, o meglio, una provocazione. Il documentario non si scrive, si gira. Come la pensi?
Questo dovresti spiegarlo ai produttori di documentari e a coloro che elargiscono fondi. Non c’è sensazione migliore per un documentarista di quella di cominciare un lavoro senza sapere dove si andrà a finire, coscienti che il processo di scrittura sarà parte di un processo più ampio dove la realtà cambia forma, avviene, si manifesta, spesso molto al di là di quanto si possa immaginare. Ma chi ha “spazi da vendere”, che sia una televisione o un bando per il cinema, non può permettersi di non sapere cosa sta finanziando. E questa è la spirale viziosa del fare cultura oggi attraverso il cinema.
Nei miei lavori ho adottato almeno tre linguaggi diversi. Schiavi di riserva ad esempio, è un racconto attraverso interviste ai protagonisti di una realtà che volevo conoscere e raccontare. Questo linguaggio a volte si rende necessario quando non ho accesso al luogo degli eventi o perché questi appartengono al passato. Poi c’è il documentario narrativo, dove riprendo esclusivamente la realtà così com’è, facendomi trovare nel posto giusto al momento giusto, cogliendo le storie che già esistono e seguendone lo sviluppo. Infine il terzo tipo, dove racconto delle storie attraverso la fiction, ma mantenendo intatti gli elementi reali del contesto.

Per un approfondimento sul progetto Exodus vi consiglio di visitare e seguire la pagina facebook ‘exodus – fuga dalla libia’.

Michelangelo Severgnini, novembre 2018, Reggio Calabria

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Michele Tarzia

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