Dalla finestra di un vecchio casolare, lungo la strada statale n. 127, osservo il monte Limbara che si increspa come un’onda lungo il pianoro di Tempio Pausania. Dalla vetta alcune antenne ronzano rimbalzando più giù, di fronte a loro, in una pozza di cemento.
È il giovanissimo carcere di Nucis, appena costruito; quello vecchio, in città, è abbandonato.
Il monte Limbara, invece, è lì da sempre, torre di sorveglianza della storia degli uomini come panopticon naturale.
Accanto al casolare c’è un vecchio capanno del ‘500, il cui ampio tetto poggia su alberi millenari. Forse era una stalla. La tavola è imbandita, è giorno ma le candele friggono accese.
Suona la statale, o forse è il vento.
Improvvisamente il cielo si copre e il pieno di luce si solidifica in oscurità. Tuona.
Le candele ora servono, riesco a vedere bene i miei compagni al tavolo: Fabrizio De André, Jacopo Incani e Richard Davis James.
Suona il vento fuori, o forse è la statale. Forse sono i rumori del bosco che vorticano attorno al Limbara. O sono le voci dei carcerati? Che chiamano i figli e chiedono le madri?
Ma è voce di donna. Anche la somma di mille uomini che cantano e che battono è voce di donna.
Sbattono nell’alto del capanno le finestre ma i miei compagni non sembrano darne conto: Faber coccola la sua chitarra con i capelli che si mischiano ai fili di fumo. Jacopo incide piegato su martelli, viti, punzoni e cacciaviti. Aphex guarda e sorride, in silenzio.
Sento applaudire, apro gli occhi.
Sono a Villa Bombrini, a Genova: le rane lungo la statale continuano a gracidare nel boschetto intorno a noi. Sul palco Daniela Pes e la sua compagna. Non so da quanti minuti mi sto stringendo le braccia, sono sudato e mi guardo attorno: tanti come me sono appena tornati da un tuffo dentro le proprie emozioni. Quanto sarebbe bello poter vedere ogni singolo episodio.
Finalmente la musica riconquista l’aria, le dita artigianali spremono i synth; batte l’incudine elettrica; le urla come sirene.
Mi mangia nuovamente il canto, strappandomi dalla sedia come la bocca di un mare in tempesta, ed è vento di pieno suono, al punto di farmi percepire sordo; in quanto colmo. Una sensazione che appena sfioro, per ritrovarmi sotto una pioggua di voci che lava tutto e che pulisce ogni peccato.
Non conosco la lingua, non conosco il significato. Ma tutto è catartico.
È un litigio dal quale si rinasce di nuova energia: i Sigur Ros giocano a carte sotto al tavolo. Io urlo contro le querce che sorreggono il tetto. Che si apre per fare entrare il carcere, con le guardi e con i diavoli, per fare entrare il monte Limbara e tutto il bosco. Entra tutta la statale, le rane e le automobili.
Implode tutto e implodo io.
Sarebbe bello piangere. Invece un altro applauso interrompe la pellicola.
È un peccato, come parlare stando in alta montagna o su uno scoglio.
Non posso fare altro che tornare ad un concerto di Daniela Pes.
Sono convinto suonerà di nuovo per me.
Non posso fare altro che tornare al Lilith Festival, che mi ha regalato una serata utile dentro di me.
Foto di Daniele Modaffari