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L’epidemia

Scritto da Laura Passeri

L’ignoranza, il preferire credere a un complotto, non furono privi di conseguenza: chiunque venisse sospettato di essere un avvelenatore, rischiava di venir assalito e ucciso

Il colera arrivò in Francia, penetrando attraverso il porto di Calais, all’inizio del 1832. Poi di città in città raggiunse Parigi dove il primo caso ufficiale fu segnalato il 26 marzo dello stesso anno. Il 29 marzo, giovedì della terza settimana di Quaresima, si celebrava la Mi-Carême. Era una pausa dai tristi rigori quaresimali, un’occasione imperdibile e i parigini certo non ne volevano saperne di rinunciare a feste e balli. Anche il bel sole primaverile, nel cielo terso sembrava allontanare la tristezza dell’inverno appena passato, celebrando con gioia l’arrivo della nuova stagione. 
Nel Nord dell’Europa e della Francia già molti avevano pagato con la vita il terribile tributo al morbo, ma a Parigi in quel giorno di festa non c’era tempo per la tristezza. Già dalla prima mattina, i parigini affollavano febbrilmente i boulevards, ballando e cantando, mascherati e vestiti in modo eccentrico. 
Alcuni si prendevano gioco della paura indossando maschere livide e bluastre, scimmiottando l’aspetto dei malati. La sera, in una delle tante sale da ballo affollate, le grida e le risate accompagnavano il cancan.  Una donna, volgarmente truccata e sudata per il ballo, gridava sguaiatamente: “Qui colera non ce n’è!”. 
All’improvviso, un uomo che fino a poco prima aveva cantato e danzato sentì le gambe irrigidirsi e si sentì soffocare. Nel tentativo disperato di respirare, si tolse la maschera, rivelando un volto scavato e violaceo. Quando gli altri si accorsero che il livido pallore e gli occhi infossati dell’uomo non erano frutto di un abile trucco che si voleva prendere beffa del colera, ma era il colera stesso, le risate, la musica e i canti si spensero. Quella sera, in molti furono portati all’Hôtel-Dieu, l’ospedale centrale, e poi sepolti così in fretta che non ci fu neanche il tempo di spogliarli delle maschere e dei costumi stravaganti. 
Nel giro di poche settimane morirono ventimila persone, senza distinzione di età o ceto sociale. Le tristi carrozze della morte percorrevano lentamente le vie traportando cadaveri in una Parigi lugubre e deserta. 
Tra la gente iniziò a circolare una diceria complottistica:  si pensò che la maggior parte dei cadaveri erano stati sepolti troppo velocemente e quindi qualcuno doveva nascondere qualcosa, di certo tutte quelle persone non erano morte di colera, ma avvelenate. Si diceva che certe persone, i potenti, avessero trovato il modo di avvelenare ogni genere di vivanda, sia al mercato delle verdure, sia nei forni, nelle macellerie o nelle cantine. I medici, ai quali prima ci si era rivolti nella disperata speranza di avere la guarigione, ora erano accusati di diffondere il colera con intenzioni maligne e molti preferirono affidarsi agli elisir e ai talismani dei ciarlatani. La folla impaurita si convinse all’inesistenza della malattia, convinta che fosse solo una messa in scena per mascherare la volontà di avvelenare la popolazione parigina. L’ignoranza, il preferire credere a un complotto, non furono privi di conseguenza: chiunque venisse sospettato di essere un avvelenatore, rischiava di venir assalito e ucciso e così ai morti per colera si aggiunsero i morti di quanti, sospettati di essere coinvolti nel complotto dell’avvelenamento, vennero brutalmente linciati dalla folla.
Tra settembre e ottobre dello stesso anno l’epidemia di colera finì. I fatti che vi ho narrato non sono altro che una trascrizione di quanto riportato dal poeta tedesco Heinrich Heine che nel 1832 si trovava a Parigi.

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Laura Passeri

Questa sono io, parole fantasia e scienza

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