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La Psicolinguistica. Cosa sto dicendo mentre parlo?

Scritto da Beatrice Pascali

La psicolinguistica studia il processo di apprendimento del linguaggio, ma anche le caratteristiche cognitivo-comportamentali che attraverso il linguaggio si manifestano

Una filologa che voleva specializzarsi nel gotico del IV secolo, che fa la traduttrice di serie poliziesche e si dedica allo studio della psicolinguistica forense e della grafologia giudiziaria, come tiene unite tutte queste attività? Con un unico filo conduttore: una profonda fascinazione per lo strumento attraverso cui il pensiero prende forma: la parola, sia essa pronunciata o scritta – come nasce, perché viene scelta e come prende vita.
E per soprammercato possiamo aggiungere che la mia doppia vita (come Bruce Wayne che è anche Batman) di percussionista rientra lo stesso a pieno titolo in quanto detto, perché le parole hanno il loro ritmo sia nel modo in cui vengono disposte in un discorso, sia per il tramite della voce che le pronuncia, ma anche la scrittura – sì, proprio il filo grafico che le forma – possiede il suo ritmo che ne è uno dei tratti salienti e maggiormente distintivi.
Queste bistrattate parole – troppe, troppo poche, vaghe, taglienti, dette a sproposito, quelle che ci mancano quando ci servono, quelle che non sappiamo dire e che travestiamo da pessime battute, quelle inutili, quelle che ci scoppiano dentro e non trovano la via di uscita perché non abbiamo acquisito un vocabolario ampio a sufficienza – ebbene, quelle sono la nostra vera carta di identità, perché potremo mascherarci con ogni sorta di look, makeup, outfit, ma quando apriamo bocca implacabilmente riveliamo sempre chi siamo.
In estrema sintesi, diciamo che il nostro modo di parlare è unico, perché si compone di una serie di elementi la combinazione dei quali è irripetibile: il patrimonio che ciascuno di noi si è costruito nel tempo di ricchezza lessicale, competenza nell’uso della sintassi, ricorso a modi di dire e gergalità, il tutto immerso nel magma della nostra provenienza geografica, genere, ceto sociale e formazione culturale. La lingua che parliamo, quindi, ci rende unici e per le stesse ragioni ci rende anche individuabili, da cui la possibilità di fare di essa a pieno titolo un campo di indagine, sotto diversi profili.
Tornando a quella strana parola che dà il titolo a questo articolo: se la linguistica è lo studio della capacità dell’uomo di comunicare tramite la parola e la psicologia è la scienza che studia il manifestarsi del funzionamento mentale ed emotivo dell’individuo, la psicolinguistica è qualcosa di più della somma delle sue parti, perché studia il processo di apprendimento del linguaggio, ma anche le caratteristiche cognitivo-comportamentali che attraverso il linguaggio si manifestano.
Se vi ho incuriosito a questo punto almeno un po’, vi chiedo un atto di fede (diversamente inizierei un lungo lungo sproloquio su base neuroscientifica): non esistono parole dette a caso. Esistono semmai i nostri tentativi di travisamento o le nostre difficoltà a esprimerci o la nostra volontà, più o meno mascherata, di nasconderci. Ogni volta che parliamo o scriviamo, il nostro cervello compie sempre una scelta, per quanto inconscia o frutto di automatismi come il più classico esempio del pedalare la bicicletta.
La lingua che parliamo non è una dotazione di base che riceviamo, bensì una competenza che acquisiamo con la pratica, visto che non partiamo mai (nel caso della lingua madre) dallo studio delle regole. Essa pertanto si forma con un processo, prima di apprendimento e poi di sviluppo e non si arresta mai, per tutto l’arco della nostra vita, perché si amplia o si impoverisce con noi e con le nostre esperienze.

Ricordate tutti, immagino, dato il luogo che mi ospita, la strepitosa “Psycho Killer” dei Talking Heads?
Il nostro povero assassino psicopatico, per la precisione schizofrenico, operava una scelta molto precisa, descrivendo le sue emozioni e quanto gli stava per accadere in inglese, mentre ancora era nel pieno dominio di sé, ma delirando in francese quando passava alla fase maniacale e compiva i suoi omicidi.
Ebbene, pur non avendo – peccato – sottoposto ad analisi il grande David Byrne, uno studio del 2017 ha indagato le interazioni fra l’effetto dell’uso di una lingua straniera e la distanza psicologica, ovverossia valutando se l’uso di una lingua straniera corrisponda alla formulazione di differenti decisioni di tipo morale rispetto alla propria lingua madre. L’esito della ricerca è stato che la scelta di una lingua straniera implica una ridotta risposta emotiva e una aumentata distanza psicologica.
Tornando alla psicolinguistica, abbiamo detto che studia il legame tra il comportamento psicologico di una persona e il suo linguaggio, orale o scritto, attraverso il quale riflette i tratti principali del suo profilo personologico, rivelando tramite l’organizzazione del comportamento linguistico, la modalità di organizzazione del pensiero di un individuo.
Ma c’è di più: ad una attenta analisi il nostro habitus linguistico è rivelatore anche delle nostre peculiari risposte disfunzionali a stress e conflitti psicologici, come rivelato dagli studi che hanno messo in evidenza che le persone che presentano gli stessi tratti psicologici hanno in comune le stesse abitudini linguistiche sintattiche e paralinguistiche.
Queste abitudini linguistiche corrispondono a meccanismi inconsci di difesa meno soggetti a manipolazioni coscienti, pertanto più adatti ad essere presi in considerazione per un’analisi dei tratti della personalità e degli stili di pensiero e comportamento. Da qui potrete facilmente immaginare le applicazioni di questo strumento in ambito criminologico; esso infatti si inserisce a pieno titolo fra le scienze forensi. E nel caso proprio non lo riusciste a immaginare…potremo sempre riparlarne!
Insomma, un preambolo un po’ lungo per arrivare a dire che in quest’epoca di volgarizzazione dei contenuti e banalizzazione del dibattito, la chiave dovrebbe sempre essere quella di un maggior rispetto per il nostro linguaggio, curandolo nella proprietà, che – intendiamoci – è anche un sapiente ricorso al sano dialetto e, con misura, a un defatigante turpiloquio – purché ne operiamo una scelta di stile e non di povertà di mente. Come scriveva Ennio Flaiano ne Le ombre bianche, “la malavoglia di pensare si trasforma presto in incapacità di pensare”.


Copertina di eineBerlinerin
Credits foto “Macchina da scrivere Olivetti” di Beatrice Pascali

About the author

Beatrice Pascali

Linguista, traduttrice, criminologa e grafologa giudiziaria; esperta in Psicolinguistica Forense e membro dell’Associazione “A Pista Fredda” della Dott.ssa Roberta Bruzzone per la risoluzione di cold case

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