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Il Generatore di Omar

Scritto da Giulia Carlucci

Gaza, 2024.
Omar ha diciassette anni e un talento straordinario nel far funzionare cose rotte. Non ha mai avuto una vera officina: lavora su un tavolo
traballante, sotto un telo bucato che tiene lontano solo la metà del sole.
La mattina si sveglia presto, quando ancora l’aria è fresca. Controlla il generatore, sistema i cavi spellati, salda pezzi di ferro vecchio con una fiamma rubata all’ accendino da cucina.
Poi scende al mercato, a piedi scalzi, per cercare pezzi che nessuno vuole più: motori di ventilatori rotti, batterie esauste, fili strappati dalle macerie. Con un pezzo di radio e una ventola di frigorifero costruisce un ventilatore che fa girare l’aria stanca della casa. Con una batteria di scooter rianima un vecchio cellulare per una bambina che non può permettersi neanche una caramella.
“È come aggiustare i sogni”, diceva un tempo a sua nonna, prima che la loro casa sparisse sotto le bombe.
Omar ci crede ancora, anche se oggi, a volte, si sentecome uno che rattoppa l’acqua con ago e filo.
Quella sera il caldo è feroce. Non c’è corrente da tre giorni. Il frigorifero è ormai solo una scatola d’aria calda. L’acqua sa di ruggine.
Suo padre dice: “Senza corrente non viviamo. Ma senza dignità, non valiamo nulla.”
Sua madre risponde: “Senza corrente non cucino. Punto.”
L’ultima tanica di carburante è finita due giorni fa. Il generatore tossisce come un vecchio stanco e poi si spegne.
Buio. Totale.
Ancora una volta.
Omar si siede a terra.
Ha fame, caldo e rabbia.
Le mani sporche, il viso grigio di polvere e sudore.
Sente il ronzio basso dei droni nel cielo, invisibili come fantasmi velenosi.
Guarda in alto, verso il soffitto sbrecciato. Poi oltre: il cielo, nero, cucito di stelle confuse. Nessuna luce, nessuna promessa.
“Quando non c’è più olio, il lume si spegne…”, mormora.
Un grido di bambino spezza il silenzio.
Un balcone si apre con un cigolio.
Un vecchio tossisce nel buio.
Poi succede qualcosa.
Dal palazzo accanto, una famiglia mette fuori una candela.
La fiammella piccola combatte contro il vento caldo.
Poi un’altra.
Poi un’altra ancora.
Un lento contagio, silenzioso.
Fiamme piccole, fragili.
Come mani alzate a dire: “Siamo ancora qui.”
Omar rovista nel cassetto della cucina. Trova una candela corta, storta, avanzata da un matrimonio o forse era una festa, che importa ormai è solo un ricordo lontano. La infila in un barattolo di vetro scheggiato e la accende.
Nel giro di dieci minuti, il vicolo è un mare di punti dorati. Ogni finestra, ogni soglia, ogni scalino brilla. Una galassia domestica costruita con niente.
Niente elettricità.
Niente benzina.
Niente accordi di pace.
Ma luce.
Un bambino inizia a leggere ad alta voce un libro. Una madre canta una ninna nanna che sa di sabbia e vento.
Un vecchio racconta una barzelletta troppo lunga: sbaglia la fine, ride lui per primo.
Ridono tutti. Davvero.
Dalle finestre spuntano mani che si salutano. Qualcuno lancia noccioline, qualcun altro batte le mani a
tempo.
Nel buio imposto da un mondo sordo, si sono accesi da soli.
Non è elettricità.
È resistenza.
Omar si volta verso il generatore. Un rottame, un ferro vecchio. Non serve più, almeno per quella sera. Si siede sul gradino di casa, le ginocchia abbracciate al petto, sentendo il respiro caldo della gente tutto intorno.
Guarda il barattolo di vetro con la candela: minuscolo, imperfetto, ma vivo. Pensa che forse, per aggiustare tutto, non basta saper saldare fili o rimontare ingranaggi. Ci vuole il coraggio di accendere una luce anche quando il buio è più forte. Perché il lume si spegne, sì, quando finisce l’olio. Ma la speranza, quella no, non si raziona. Non si esaurisce.

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Giulia Carlucci

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