Interviste

Il fascino discreto della parolaccia

Scritto da Beatrice Pascali

La linguista forense Beatrice Pascali intervista Andrea Viviani, Ricercatore al Dip. di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila, sul fascino discreto delle parolacce

In un fondo del Corriere della Sera Paolo Di Stefano, interrogandosi sull’origine e attualità di certe parolacce che non conoscono tramonto, riporta alcuni esempi per argomentare che in fondo un buon modo per dissuadere dal ricorrervi è rivendicare fieri proprio quell’etichetta (1).
Tra le parolacce primordiali svetta sempre “puttana” come primo insulto da rivolgere a una donna. E ancora: “e se il più classico dei «vaffanculo» ha un valore poco più che espressivo-emotivo, dire «frocio» ha accresciuto la connotazione ideologica discriminatoria, mentre «negro» l’ha acquisita. «Parla’ floscio» designava il parlar male tipico del forestiero, probabilmente derivante da «parlare floscio», ovvero con la erre moscia francese”.

 Prof. Viviani, lei da linguista come interpreta il fenomeno? È qualcosa di cui davvero non si può fare a meno?
 “Madonna però, quante parolacce!”. E ho pensato: nominare invano la Vergine vale meno?! Oramai va così: ci siamo lasciati un po’ tutti andare. A prescindere dalle sacche mitologiche dello stereotipo, del tipo i veneti e i fiorentini sono grandi bestemmiatori (per frequenza i primi, varietà sul tema i secondi), i romani sono sboccati –  e grazie: se tra i capolavori fondati hai i sonetti del Belli, “monumento alla plebe di Roma” (leggeteli: non sono esattamente temi da educandi), che esiti puoi aspettarti, se non il ristorante “La Parolaccia”? Esiti, appunto. Epigoni in tutta Italia (giuro: provate su Google con ‘ristorante parolaccia’: dozzine). E la Capitale è motore trainante, se non altro per la assoluta disinvoltura nell’impiego di parolacce da parte di tutte le classi sociali in ogni contesto.
Il fascino pel disfemismo, a Roma, è cosa antica: “Figli di puttana, tirate!” non è voce di cantiere ma Iscrizione di San Clemente (la Basilica, al Laterano) e Sisinnio (il garbato locutore) e rientra anche oggi, biasimo a parte, tra i motivi di fascinazione pei capitolini. E diffusione, quindi, per imitazione. In tutta Italia. Poca roba, da altri lidi; soprattutto perché la coloritura fonetica dialettale, pressoché assente al romanesco, che al più pronuncia con maggiore intensità le consonanti e ha tutti i lessemi trasparenti: chi non capisce rotto ’n culo o bbocchinara, osta non poco (minchia a parte). Odi et Amo, però: la cifra dell’italica ipocrisia. La parolaccia va bene ma fino a un certo punto, c’è sempre un limite, stavolta hai esagerato, non ti permettere più!
Quale, limite?! L’interruttore è on/off, o le usi o ne fai a meno. Il resto è puro rosicamento, non accettazione per motivi personali o mala interpretazione del senso originario. Succede spessissimo: quello sopra, in veste di verbo, è inteso fuori Roma come ‘essere invidiosi’: va da sé, come nell’esempio, che è tutt’altra cosa; ma questo accade, alle parole, quando migrano dal luogo d’origine e s’acclimatano altrove: la veste resta, il senso no; muta, s’adatta. E sono dolori, perché davvero c’è il rischio d’offendere senza rendersene conto. Punto cruciale, almeno per me. Se rischi, evita. Se la frittata è già fatta, scusati; o magari spiega: non è vero che una battuta o una parolaccia spiegate perdono intensità: la raddoppiano, semmai, perché diventano chiare a tutti gli attori coinvolti.

Fra i vari rischi, c’è una errata comunicazione. Una battuta sulla ormai vexata quaestio transregionale sull’uso di “sticazzi”, esempio innocuo solo in apparenza?Sì, perché a Roma è di una volgarità assoluta e indisponente, “rissògena”. Dubito fuori lo si sia inteso, coi rischi che lascio intuire.

Come valuta nello stile comunicativo un sapiente ricorso al sano dialetto e il talora defatigante turpiloquio?
Con sfavore, e per due punti. Il primo è che sono entrati, nel novero dei disfemismi persino dialettali, e io fatico a vedere emancipazione nella mercificazione. Il secondo è che se t’abitui alla parolaccia persino in dialetto, col benestare implicito – pensi tu – della tua comunità d’appartenenza è come se ti… piacesse vincere facile, parafrasando il noto jingle. Fatto salvo l’insulto, lo sbotto liberatorio, ché quello è impeto irrefrenabile, e quanno ce vo,’ ce vo’, se deleghi al solo disfemismo l’espressione della tua personalità corri concretamente il rischio che questo modo macchinale di procedere alla lunga vada a detrimento di cose cui magari nemmeno sai di tenere o hai bellamente scordato: il motto arguto; l’ironia; l’allusione. Lì, sta la personalità. Non nello scimmiottare motti (e modi) altrui.
Totò di parolacce ne ha usata una sola. Che tutti abbiamo bene a mente, nella scena che, non a caso, ancora gonfia i petti e regala brividi. Totò che della risata anche popolana, anche crassa, guascona, persino gretta, è stato il Principe. Non certo un comprimario. Una sola. In 50 anni di carriera e pari film.

About the author

Beatrice Pascali

Linguista, traduttrice, criminologa e grafologa giudiziaria; esperta in Psicolinguistica Forense e membro dell’Associazione “A Pista Fredda” della Dott.ssa Roberta Bruzzone per la risoluzione di cold case

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