Col viso scanzonato, incorniciato da una folta e inconfondibile cascata di riccioli bruni, Giovanni Arezzo sembra ancora lo stesso ragazzo che conobbi al liceo sul pullman in partenza per una gita scolastica al Teatro Greco di Siracusa a cui eravamo entrambi arrivati in campale ritardo, per uno di quegli strani giochi del destino, che a volte mette sulla nostra strada le persone giuste al momento giusto.
Oggi, che è un attore teatrale e cinematografico affermato, reduce dal debutto nelle sale cinematografiche del film di Simona Izzo e Ricky Tognazzi Francesca e Giovanni (2025) in cui interpreta un ruolo comprimario, ci ritroviamo con gioia per una densa chiacchierata sulla pregnanza umana e documentaria di questa pellicola, sulla sua multiforme carriera artistica e sui suoi numerosi progetti futuri.
Ragusano, classe 1985, tu approdi alla recitazione giovanissimo: ci racconti i tuoi esordi?
La mia prima esperienza legata al palcoscenico è la classica recita di quinta elementare: “debuttai” con un testo comico in dialetto, Tatiddu u sogghiaru, e ricordo che durante la messinscena – i filmini che ho mostrato di recente alle mie nipotine ne sono testimoni! – mi fermavo spesso, in barba alle più elementari regole della drammaturgia, stupito e soddisfatto che la gente ridesse! Se invece ci riferiamo al mio esordio come professionista, quello è avvenuto sul palco del Centro Teatro Studi di Ragusa, sotto l’affettuosa e imprescindibile guida del regista Franco Giorgio, al quale mi lega una enorme gratitudine e una più che ventennale amicizia: dividevo la scena con l’attrice Mariarita Sgarlato, mentre la musica era di Peppe Arezzo e le coreografie di Emanuela Curcio, interpretando la parte di Oscar in uno spettacolo tratto dal meraviglioso romanzo breve di Éric-Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa. Fu incredibilmente intenso e non sarebbe potuto essere diversamente, dato che Oscar è un bambino ospedalizzato, malato terminale di leucemia, che scrive a Dio lettere di disarmante leggerezza per documentare i suoi ultimi giorni di vita. Fu allora che mi resi pienamente conto di quanto sia importante poter suscitare emozioni negli spettatori e decisi che a quella sensazione non avrei più rinunciato…
Ti sei spesso definito cantattore: quale altra identità artistica nasconde questo evidente gioco di parole?
Sicuramente quella di Soulcé – che si pronuncia come si scrive! – il mio alter ego musicale. L’amore per la musica in me è nato forse addirittura prima di quello per la recitazione e, fin da giovanissimo, la musica è stata per me una benzina, una spinta propulsiva alla creatività che ha trovato nelle barre del rap il suo sbocco naturale. Dopo una lunga stagione di soddisfazioni musicali, peraltro coronata dalla pubblicazione di ben cinque dischi, ho dovuto mettere Soulcè in stand-by per dedicarmi con gioia alla carriera attoriale. Solo di recente io e il mio vecchio compagno d’avventure Teddy Nuvolari (alter ego del dj e beat maker del duo Vincenzo Sortino N.d.R.) abbiamo ripreso a fare musica, un po’ per esigenza, un po’ per vedere se ne eravamo ancora capaci (Ride N.d.R.,) … e presto torneremo a farci sentire!
Sei reduce dall’esperienza sul set con il film Francesca e Giovanni (2025), per la regia di Simona Izzo e Ricky Tognazzi, dove hai interpretato il ruolo del magistrato e fratello di Francesca, Alfredo Morvillo: ci racconti qualcosa in proposito?
Un primo pensiero vorrei rivolgerlo ai miei colleghi di set Ester Pantano e Primo Reggiani, rispettivamente nei ruoli di Francesca Morvillo e Giovanni Falcone: Ester ha dato alla ‘sua’ Francesca tutta la passione e la profondità di cui è capace, mentre Primo, oltre che un “figlio d’arte”, (il padre era il compianto Aldo Reggiani, attore e doppiatore di punta degli anni Settanta, N.d.R.), è un attore intelligente e scrupoloso che, da non siciliano, si è impegnato a fondo per calarsi nei nostri panni, con la generosità tipica degli artisti di razza. Una delle scene a cui sono più legato è quella in cui Giovanni Falcone, Paolo Borsellino (interpretato da Alfio Sorbello, N.d.R.) e Alfredo Morvillo siedono insieme a un tavolo impegnati nella stesura dei mandati di cattura derivati dal Maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra: a un certo punto arriva sulla scena anche Francesca che, resasi conto dell’enorme mole di lavoro, decide di dar loro una mano. Al di là che il fatto sia realmente accaduto o che si sia trattato di una licenza drammaturgica, quei fotogrammi rendono giustizia dello spirito di sacrificio e dell’abnegazione che caratterizzava queste persone, disposte a sacrificare la loro quotidianità per un ideale più alto.
Quali differenze riscontri, se ne riscontri, rispetto all’esperienza in teatro?
A livello interpretativo bisogna avere coscienza del cambio dell’interlocutore: quella stessa emozione che in teatro si alimenta della presenza del pubblico e che deve, democraticamente, raggiungere tutti, tanto lo spettatore in platea, quanto quello in piccionaia, viene cristallizzata dalla macchina da presa, il che, almeno inizialmente, potrebbe mettere ulteriormente alla prova un attore non abituato; a livello di preparazione e di studio, invece, non cambia assolutamente nulla, l’impegno profuso è sempre altissimo!
Come sei entrato a far parte del cast?
Sono stato contattato da uno dei casting, Maurizio Quagliana, con il quale avevo già avuto occasione di lavorare quando ho girato Il giudice e il boss per la regia di Pasquale Scimeca, uscito nel 2024. Si trattava di un film incentrato sulla figura del giudice Cesare Terranova e sulla sua lotta contro la mafia, dunque una pellicola di argomento affine a Francesca e Giovanni, ma dal taglio più tradizionale; ho inviato un self-tape che ha convinto, ho girato una scena per il call back (il secondo provino al quale si presentano gli attori la cui candidatura a un ruolo è stata selezionata in precedenza N.d.R.) che ha ricevuto diversi riscontri molto positivi già nell’immediato, e successivamente ho incontrato i registi, ma ero stato scelto a prescindere: questo ruolo era scritto nel mio destino, evidentemente!
Sono trascorsi pochi giorni dal doloroso anniversario della Strage di Capaci: che cosa significa, ancora oggi, per un siciliano prendere parte a questo genere di produzioni?
Quando avvennero le stragi di Capaci e di Via d’Amelio ero un bambino, avevo sette anni, ma ricordo bene quanta tensione si respirasse in giro. Sono convinto che ogni siciliano porti sulla pelle, quasi inscritti nel proprio codice genetico, la traccia, il peso e la responsabilità di queste drammatiche pagine di Storia contemporanea. Ma sono altrettanto persuaso che il nostro compito come cittadini, prima ancora che come artisti, sia raccontare parallelamente un’altra Sicilia, calda, opulenta, accogliente e normale, in cui anche il membro di un pool antimafia, se ne ha voglia, può sedersi a tavola con la propria famiglia e gustarsi una fetta di cassata, come una qualsiasi altra persona. Con questo film, entrando in punta di piedi nel garbuglio di una identità isolana così sfaccettata e complessa, Simona e Ricky ci hanno provato. E, auspicabilmente, ci sono riusciti.
Che cosa diresti, allora, al pubblico per invogliarlo ulteriormente alla visione del film?
Userei, probabilmente, le parole dello stesso Alfredo Morvillo, che ho avuto il piacere di incontrare per la prima volta qualche giorno fa, durante la prima proiezione del film al cinema “Rouge et Noir” di Palermo, secondo il quale questo è un film importante perché fonde con delicatezza la dimensione didascalica legata al doveroso ricordo della Strage di Capaci e di tutte le persone che vi persero la vita a una dimensione più umana, contrassegnata non solo dal travolgente amore di Francesca Morvillo per Giovanni Falcone, ma anche – e forse soprattutto – dalla sua competenza giuridica, dalla passione e dalla caparbietà di questa donna di legge, tra le pochissime magistrate (sic.) allora in Italia (l’accesso delle donne ai pubblici uffici e alla Magistratura è stato consentito soltanto a partire dal 1963, N.d.R.), che non ha esitato a mettere la propria persona e la propria vita al servizio delle Istituzioni.
Quando ti rivedremo, invece, in Teatro?
Molto presto! Sono reduce dallo spettacolo La Chunga di Mario Vargas Llosa andato in scena dal 9 al 18 maggio scorsi al Teatro Stabile di Catania per la regia di Carlo Sciaccaluga, e a breve (lo spettacolo ha debuttato il 30 maggio scorso N.d.R.) sarò in scena, sempre per conto del Teatro Stabile, con In cerca di un sì, testo drammaturgico tratto dall’omonima novella di Vitaliano Brancati, per la regia di Nicola Alberto Orofino, mentre dal 27 maggio al primo giugno andrà in scena, nell’ambito del Torino Fringe Festival, Quando venne buio, un testo ispirato alla vicenda delle Termopili che ho scritto per Stefano Panzeri nel ruolo di Aristodemo, con musiche originali di Michele Piccione. Sempre per Stefano Panzeri ho scritto e diretto Stretto, che debutterà la prossima estate. Stretto è la storia di un uomo che, per qualche ragione che verrà rivelata nel corso della messinscena, decide di dover assolutamente attraversare a nuoto lo stretto di Messina e quella traversata, con tutte le difficoltà fisiche e psicologiche che comporta, diventa l’occasione per ripensare alle storie millenarie che hanno attraversato, o semplicemente lambito, quella striscia di mare…
In ultimo, se dovessi tracciare un bilancio delle tue esperienze lavorative, a quale dei personaggi che hai interpretato ti senti più legato?
A parer mio, i bilanci sono sempre provvisori, per cui non è facile rispondere a questa domanda. Ho un rapporto viscerale con il mio lavoro, per cui sono legato a tutti i personaggi che interpreto e ciascuno diventa il più importante quando lo sto interpretando, il che poi significa lasciarlo entrare nella mia vita, lasciare che diventi me. Tuttavia, se proprio dovessi sceglierne uno, sarebbe probabilmente il ruolo di Martin in Chet!, un monologo scritto e diretto da Laura Tornambene, ispirato alla vita del grande sassofonista statunitense Chet Baker: quel personaggio, esattamente come faccio io quando recito, sospendeva il giudizio su tutti gli eccessi che avevano costellato la vita dell’amico, per restituire il giusto splendore alla sua personalità artistica. Ecco, quando qualcuno mi dice che si è sentito ispirato dall’avermi visto in scena, riconosco quella scintilla che, oggi e sempre, mi farebbe scegliere il mio lavoro: la possibilità di accendere fuochi, da cui far divampare grandi passioni…