La voce è più veloce e suona più forte del silenzio. Non ci sono muri abbastanza spessi per fermarla. È la voce di Samir, sette anni, che conta i giorni come fossero figurine: “Oggi è quello senza pane. Ieri era quello senza luce. Domani forse sarà quello senza noi.”
Ride mentre lo dice. Ride come ridono i bambini, con i denti da latte e l’incoscienza che dovrebbe appartenergli. Quel riso spacca lo stomaco: è una canzone stonata, una musica che nessun adulto osa ballare. Solo perché non ricorda più come si fa.
A Gaza non si vive, si prova a sopravvivere.
Samir gioca a calcio con una bottiglia schiacciata e suo fratello Ahmad para palloni invisibili tra i muri sbrecciati di quella che una volta era la loro scuola.
La madre apparecchia: tre piatti per cinque persone. I piatti non ci sono, il pane nemmeno, c’è solo il gesto. A volte i gesti ci salvano più del pane. Intorno, la città si trasforma continuamente in una scacchiera di macerie. Le strade cambiano nome. I nomi aiutano a ricordare cosa c’era prima. Chi ci viveva.
Il vecchio libraio, che continua a rimettere in ordine scaffali crollati, dice che la toponomastica è la prima a morire in guerra. Poi scoppia a ridere pure lui, perché ridere è l’unico modo di respirare quando manca l’aria.
Il telegiornale, lontano da qui, annuncia: “Oggi sono duecento.” Lo dice con la stessa voce con cui annuncerebbe la pioggia. Viene quasi da chiedersi se, subito dopo, non passino anche le previsioni del tempo: “Domani macerie sparse, con possibilità di bombardamenti nel pomeriggio.”
Bisogna conoscere.
Per non farsi seppellire due volte: una dalle bombe, l’altra dal silenzio del mondo. Conoscere il nome della bambina con le trecce che tiene in tasca una biglia blu, il suo amuleto contro le esplosioni. Conoscere Ahmad, che sogna di diventare portiere e para sogni o bottiglie di plastica accartocciate invece di palloni. Conoscere Layla, che balla senza musica, solo per ricordare al corpo che è ancora vivo. E conoscere anche Omar, che non gioca più. Non perché abbia smesso, ma perché non c’è più. Aveva otto anni e una passione per i razzi… quelli di carta, costruiti con pagine strappate dai quaderni di scuola.
Li lanciava in aria e gridava: “Un giorno volerò anch’io!” Adesso i bambini lo ricordano così, ogni volta che guardano il cielo senza sapere se cadrà qualcosa o qualcuno.
Omar non c’è più, ma ogni volta che pronunciano il suo nome è come se facesse ancora partire i suoi razzi di carta, oltre la paura.
E poi ci sono Karim e Youssef. Due fratelli come tanti, ma anche più grandi di tutto. Karim ha nove anni e sulle spalle porta Youssef, che ne ha tre e non può camminare veloce. Li hanno visti attraversare la città, un passo dopo l’altro, come una formica con il suo carico prezioso. “Non ti lascio,” ripete Karim, “non ti lascio mai.”
Ogni volta che un’esplosione scuote l’aria, si fermano e contano fino a dieci. Poi riprendono a camminare. Nessuno sa dove andassero. Forse verso un rifugio, forse verso il mare, forse verso un posto che non esiste più. Ma tutti ricordano quella scena: due fratellini che sfidano il mondo e il fuoco, con l’amore più testardo della paura.
I cimiteri intanto crescono in verticale, come palazzi. Persino l’aldilà ha finito lo spazio. Ma sulle pietre, qualcuno continua a incidere i nomi. I nomi sono più ostinati delle bombe: sopravvivono anche al fuoco, riecheggiano nel silenzio delle macerie.
Forse il compito di chi resta non è capire — nessun cervello sano potrà mai capire questo massacro — ma raccontare.
Guardare, conoscere, continuare a chiamare quei nomi.
Conoscere è il contrario del voltarsi. Conoscere è l’opposto del “non mi riguarda”.
Perché domani, quando qualcuno dirà: “Non sapevo”, ci sarà sempre una voce, anche piccola, anche spezzata, che risponderà pronta:
“No, tu lo sapevi. Solo non volevi conoscere.”
Finché li chiamiamo per nome
“Non sapevo”
“No, tu lo sapevi. Solo non volevi conoscere.”

