Andrea cammina sul filo. Non un filo teso tra due grattacieli — ma quello, invisibile e tremante, che separa la calma dalla tempesta. La vita dalla sua stessa caricatura.
Ogni mattina si sveglia come si rinasce: stropicciato, smarrito, con la bocca impastata di sogni lasciati a metà e il cuore che ancora batte, contro ogni logica e previsione.
Il caffè fuma come una promessa. La moka sbuffa, lui la guarda come si guarda un vecchio amico che ha tradito mille volte ma che, per qualche ragione, si perdona sempre.
È lì, in pigiama, con i capelli spettinati da un temporale interiore, che Andrea capisce: la vita non è afferrabile.
È un brivido.
Un lampo tra due silenzi.
Una vertigine che si finge quotidianità.
Va al lavoro dove le parole costano poco e il tempo ancora meno, intanto dentro di sé costruisce città invisibili: fatte di incontri mancati, canzoni salvavita, e sogni che si tengono in piedi solo se ci credi con gli occhi chiusi.
Spera, ama, inciampa — ma resta in equilibrio.
Finché non arriva quel giorno.
Quel giorno piove. Non una pioggia poetica, ma di quelle che lavano via anche i pensieri.
Una telefonata. Tre parole. Fine corsa:
“Niente da fare.”
Suo padre — un uomo difficile da decifrare, pieno di silenzi, forte come certe montagne che sembrano eterne — se ne va senza avviso. Senza applausi. Senza “ti voglio bene” finali.
E Andrea cade. Non all’indietro, non platealmente.
Cade dentro. Dentro un buco che non ha fondo, né pareti a cui aggrapparsi. Un abisso educato che si chiama lutto, ma che in realtà è solo mancanza.
Manchi tu. Manco io. Manca tutto.
Cammina per ore, con il cielo che lo schiaccia e l’anima in tasca.
Si siede su una panchina bagnata, dove la pioggia non fa distinzioni tra vivi e sopravvissuti.
Accanto a lui, una bambina perde il gelato. Gli occhi suoi sono due naufragi piccoli.
Lui le sorride. Un sorriso spezzato, ma vero. E in quel sorriso qualcosa si ricuce.
Torna a casa.
Non è una rinascita, ma una respirazione lenta.
Accende la radio.
Chiude gli occhi. Capisce che il filo c’è ancora. Più sottile, forse. Più fragile.
Ma c’è.
E allora si rimette in piedi, un passo alla volta.
Barcollando.
Cantando.
Amando anche quando fa male.
Perché vivere — davvero vivere — è stare in bilico con il cuore esposto e la follia come rete di sicurezza.
Ogni sera, prima di dormire, si ripete piano: “sono in equilibrio”.
Passano mesi. Forse anni, ma nel cuore di Andrea il tempo non segue il calendario: si misura in respiri ritrovati, in piccole cose che tornano a battere dove prima era silenzio. Ha smesso di cercare il senso in ogni cosa. Non perché abbia rinunciato, ma perché ha capito che certi significati arrivano solo quando smetti di chiedere.
È in un bar, un martedì qualsiasi, che lei entra.
Un ombrello rosso, un libro sotto il braccio e quel modo di camminare come chi è inciampato spesso
ma ha sempre scelto di rialzarsi con eleganza.
Si siede a due tavoli dal suo. Ordina un tè.
La guarda. Non come chi cerca qualcosa, ma come chi riconosce un altro funambolo.
Lei alza gli occhi. Lo sguardo è quello giusto: non promesse, non certezze — ma un invito a camminare insieme, sul filo.
Non succede nulla di straordinario. Nessun bacio sotto la pioggia. Nessuna musica epica. Solo due sguardi che si sorridono come chi ha imparato a cadere e ha deciso che vale comunque la pena di provare a volare.
Quella sera, Andrea torna a casa e si prepara la cena.
Niente di speciale: una frittata che si rompe in padella ma è buona lo stesso.
Il gatto lo scruta, giudicante ma affettuoso.
Fuori, il vento muove le tende come se applaudisse piano.
Andrea sorride.
Il filo c’è. Sottile, tremante, vivo.
E lui ci cammina sopra, con le braccia aperte, il cuore senza rete, e l’anima che sa, finalmente, che l’equilibrio vero non è non cadere mai — ma scegliere ogni giorno di salire di nuovo.
Equilibrismi
Andrea cade. Non all’indietro, non platealmente. Cade dentro.