Andrea Van Cleef è un cantautore, cantante, bassista e chitarrista proveniente da Brescia che ha suonato molto anche in Europa e negli Stati Uniti con band di diversa estrazione. La sua produzione discografica include diverse declinazioni e sonorità, dal folk psichedelico, allo stoner e doom-hard-psych. In questa intervista abbiamo parlato della sua formazione e del disco più recente “Horse Latitudes” (2024) di cui consiglio vivamente l’ascolto.
Prima di parlare dell’ultimo album, mi piacerebbe sapere qualcosa sulla tua formazione musicale e i tuoi principali riferimenti artistici.
La mia formazione musicale è stata assolutamente da autodidatta, cominciata molto tardi. Nessuno nella mia famiglia suonava strumenti anche se c’era passione per la musica e nessuno dei miei amici; la musica che ascoltavo (classic rock, heavy metal, prog) era molto difficile da riprodurre in autonomia, non conoscevo neppure nessuno che desse lezioni di strumento e così non ho pensato di imbracciarne uno, la mia espressione artistica era dedicata al disegno e alla pittura fino a che, intorno ai 19 anni, ho vissuto la mia “fase punk” e ho scoperto prima Ramones e poi band che si sono rivelate per me fondamentali come Replacements e Hüsker Dü; con l’aiuto di internet ho recuperato qualche nozione sugli accordi e ho iniziato a cercare di riprodurre i brani di queste band. Ho poi iniziato a cantare perché nella mia prima band nessuno voleva cantare.
Riferimenti artistici… a livello di songwriting potrei citare Paul Westerberg, Guy Kyser dei Thin White Rope, Mark Sandman, Neil Young, anche se alla stessa domanda postami domani potrei dare risposte diverse. E sullo stesso piano potrei mettere scrittori come Joe Lansdale e Cormac McCarthy o Alan Moore. Dal punto di vista strumentale invece le mie influenze sono più relative alle mie esperienze nell’ “heavy psych” e ti posso dire Toni Iommi e tutto ciò che ne è derivato. Come produzione artistica sono fan di Daniel Lanois e Mitchell Froom.
Puoi raccontarci la genesi di “Horse Latitudes” e cosa emerge a livello dei testi e delle sonorità da questo tuo lavoro?
É un disco nato dalla situazione post-covid in cui mi ero trovato per le restrizioni dell’epoca a suonare prevalentemente musica acustica, distaccandomi dall’approccio più elettrico e rock che avevo sempre tenuto in passato. L’esperienza ponte è stata quella della band “Folksession”, in cui per la prima volta sentivo i miei brani riprodotti con l’aiuto di strumenti tradizionali come violino, contrabbasso e mandolino. Il passaggio in Texas a cavallo tra il 2022 e il 2023 ha fatto il resto, inserendo la mia sensibilità marcatamente europea nell’immaginario USA che da sempre caratterizza i miei ascolti. A livello di testi ho fatto quello che faccio da sempre (al di là dei risultati): creazione di micro-racconti, usare l’affabulazione per scrivere canzoni che raccontano una storia che procede per immagini che accompagnano la musica. Ovviamente gli elementi autobiografici riemergono qua e là, ma cerco di renderli nascosti, anche a me stesso. Più volte mi è capitato di rileggere dei testi scritti in passato e riuscire a capire cose di me stesso che nel momento in cui le avevo scritte, coinvolto negli eventi che stavo vivendo, non riuscivo a cogliere. C’è qualcosa di me in tutti i personaggi delle canzoni del disco probabilmente, anche se non sono in grado di trovare corrispondenze biografiche al momento. Credo che, al di là di tutto, sia il primo disco che inizia a venire a patti con un’età che, anche se non è di sicuro avanzata, non è più di certo giovanissima.
Perché hai scelto d’intitolarlo così?
Era il nome dato alla latitudine del trentesimo a nord dell’equatore. Quando anticamente nelle navigazioni i velieri giungevano nella fascia di alta pressione dei 30°N, i marinai spesso venivano obbligati dal mare calmo e dal poco vento a fermarsi per diversi giorni e, a volte, per settimane per cui alla fine razionavano le loro provviste di acqua. Poiché i cavalli avevano bisogno di bere molto, dovevano essere sacrificati e gettati in mare. Il trentesimo Nord passa da Austin, Texas, dove ho registrato gran parte del disco. Fortunatamente senza essere gettato a mare durante il viaggio.
Quali le sue peculiarità rispetto ai precedenti dischi da solista?
Penso ci sia un suono più definito e più omogeneo rispetto ai dischi passati dove spaziavo tra generi diversi senza preoccuparmi troppo degli ascoltatori e del disorientamento che potessero provare. Stavolta il focus era sulle canzoni e sul fatto che rappresentassero un insieme identificabile. La scelta di non avere nessuna chitarra elettrica e nessun basso elettrico è stata fondamentale per caratterizzare il disco a livello di texture sonora e ha aiutato molto a far sì che il disco risultasse più comprensibile per nuovi ascoltatori.
All’interno dell’album c’è un pezzo che riveste un particolare significato per te?
Tutti ne hanno uno, anche se mi piace pensare che “The Real Stranger” rappresenti la maniera più sincera in cui sono riuscito a descrivere come mi sento nella socialità e nei gruppi o micro gruppi che caratterizzano la nostra presenza nella società in genere. L’ho scritto nel 2006 (infatti vengono citate Saragozza e Galway, città che avevo visitato in quel periodo di boom dei viaggi aerei low cost) e rifinito solo di recente. Incredibile come i versi nuovi vadano insieme a quelli vecchi e come possa ancora riconoscermi in quei simboli e significati, probabilmente il senso di estraneità sarà qualcosa che mi accompagnerà sempre, anche se non è sempre una difficoltà per forza.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Ti dico gli ultimi vinili che vedo adesso posizionati vicino al piatto in casa, quelli che sto facendo passare: due ristampe di dischi sensazionali di Betty Davis, il primo della Budos Band, “Absolute Elsewhere” dei Blood Incantation, “Sound Affects” dei Jam, il secondo dei Blue Oyster Cult, quasi tutti artefatti del mondo che conoscevamo. Sul telefono con Apple Music (in auto e mentre faccio sport) invece seguo le nuove band stoner/doom e i dischi dei nuovi cantautori roots americani (Jason Isbell, Billy Strings…) insieme a qualche stranezza dal resto del mondo, tutte novità.
Hai mai pensato di comporre in lingua italiana?
Mai, non sono proprio capace, anche se rispetto a una volta ascolto molta più musica cantata in italiano e ho attuato un personale viaggio di riscoperta dei cantautori italiani dei 70s. Non riuscirei mai a scrivere né a cantare in italiano temo, è proprio una lingua con un suono diverso, è strano come nella musica non mi appartenga. Tanto vale concentrarsi sulle cose che riesco a fare, anche se sarebbe stato un aiuto incredibile per costruirsi una carriera; dal post “Germi” (Afterhours, 1995) in poi l’Italiano è ridiventato l’unica lingua possibile per il mercato italiano, cantare in Inglese è fortemente penalizzante qui, anche se il mondo è grande e appena si scavallano le alpi ovviamente il meccanismo si inverte.
Progetti in corso e futuri live?
Sta per uscire un live registrato durante l’ultimo giro di concerti in Texas, spero esca prima dell’estate. Ho ripreso anche a frequentare una sala prove con gli amplificatori grandi e la batteria rumorosa per un nuovo progetto stoner/doom/psych. Spero presto di pubblicare qualcosa con questo progetto e tornare a far tremare un po’ le pareti di qualche locale, anche se ormai la mia carriera sarà sempre più orientata verso il cantautorato o almeno credo.
E…per concludere citando la signora Harvey…hai anche tu “Horses in your dreams”?
PJ Harvey è un’autrice eccezionale, l’ho sempre vista come una Emily Dickinson con l’aiuto della giusta rabbia (e della chitarra). Nei miei sogni ci sono tante cose, a volte brutte, legate alle difficoltà della vita e a quelli che percepisco come fallimenti e a volte, fortunatamente, anche belli come ambienti, spazi di serenità, rivivere momenti banali con la mia famiglia che sono rivestiti di una magia inafferrabile che è probabilmente la sensazione più preziosa che avrò mai.