Astro del firmamento attoriale italiano, Alessio Boni coniuga ad una indiscussa professionalità, rare doti di gentilezza e disponibilità, che ho potuto apprezzare intervistandolo telefonicamente, per conto della redazione di SOund36, in occasione di una tappa del suo tour teatrale con lo spettacolo Iliade. Il gioco degli dei, che ha portato il 14 febbraio scorso sulle tavole del Teatro Duemila di Ragusa, mia città di residenza. L’intervista si è tradotta in un caldo invito alla riscoperta di quei valori autenticamente umani, dei quali l’Arte è – e rimane – veicolo privilegiato.
Alessio, sappiamo che prima di approdare alla carriera attoriale in Teatro e in televisione, ti sei è cimentato in esperienze lavorative molto distanti e diverse. Quanto di questa tua precedente vita lavorativa riesci ancora oggi a portare sul palco?
Tanto, tantissimo. Ciascuno di noi porta dentro di sé una sorta di codice genetico fatto di tutte le esperienze proprie e altrui che si sono ereditate anche in maniera inconscia e non fa che replicarle giornalmente nella propria attività, quale che sia. Poi, è chiaro, nel nostro ambito ciascun attore sceglie un proprio metodo, si attiene ad una propria disciplina. Pare che Gérard Depardieu arrivi sul set in motocicletta un’ora prima di girare e si affidi perlopiù al proprio estro. Io, invece, sono Alessio Boni e se debbo interpretare, poniamo, un barman, ho bisogno di “imparare” a shakerare un cocktail: è questione di quanto e di come si vuol arrivare ad essere credibili, presumo.
Quale peso ha avuto, se ne ha avuto, la cultura classica nella tua formazione attoriale?
Credo sia stata fondamentale. E per «classici» non intendo soltanto Omero, che rientra sicuramente tra i miei capisaldi e contiene in nuce tutta la letteratura successiva, ma anche, per esempio, Dante, Shakespeare e tutti quegli autori il cui messaggio non smette di illuminarci con nuovi spunti di riflessione. Pensa a come Omero dipinge il rapporto tra Achille e Patroclo…in quel duo c’è già tutto: il senso altissimo dell’Amicizia, la lealtà, il sentore della vendetta. Si deve soltanto saperne decodificare il messaggio.
Credi che al giorno d’oggi sia ancora possibile parlare di catarsi attraverso il Teatro e attraverso l’Arte in generale?
Non sono solo convinto che si possa, ma che si debba, specie in un tempo povero di valori profondi come il nostro. Il Teatro, la Letteratura, l’Arte in generale hanno soprattutto il dovere etico di far capire ad un pubblico potenzialmente ignaro che ciò che ci sorprende o indigna della nostra attualità (allude brevemente al conflitto russo-ucraino N.d.R) in realtà si sta solo ripetendo, perché è già accaduto in un passato remoto, quando bastava una scarpa sporca o il desiderio della donna di un altro a far scoppiare una guerra decennale. Ci vuole qualcuno che la racconti ancora, questa storia. Come accade nell’Iliade, che Simone Weil chiamava, non a caso, «il poema della forza» …
Lo spettacolo che la tua compagnia teatrale sta portando in giro per l’Italia si chiama Iliade. Il gioco degli dei. Sembrerebbe un titolo contraddittorio. Ce lo spieghi?
Il titolo dello spettacolo parte da una riflessione condivisa con i miei colleghi e collaboratori (tra gli altri, il drammaturgo Francesco Niccolini e i registi Marcello Prayer e Roberto Aldorasi, membri, con Boni, de Il Quadrivio N.d. R.) nel post-pandemia: non esiste una sola guerra, ne esistono tante. Esistono ancora gli dei? E come sono questi dei superstiti? Depotenziati, grotteschi, volubili. Fragili. Al punto che Zeus indice una riunione per capire come mai gli dei siano scesi dal piedistallo e, in quell’occasione, insieme agli altri, rivanga con rimpianto il tempo mitico della guerra di Troia, con esti imprevisti e sorprendenti. Si tratta dell’eterno ritorno dell’identico, in fondo…
Il mito classico è appunto, prima di tutto, un repertorio di archetipi e di situazioni cicliche: quale messaggio “universale” vorresti che lo spettatore portasse con sé al termine dello spettacolo?
Vorrei che al termine dello spettacolo lo spettatore si chiedesse “chi ha giocato con chi”, cioè se gli esseri umani siano creature degli dei, o al contrario, gli dei non siano altro che (distorte) proiezioni dell’umano. Ma soprattutto vorrei che si cogliesse un invito implicito alla riscoperta del nostro nocciolo umano, che è l’unico vero antidoto all’aridità del mondo contemporaneo…
In un video di presentazione dello spettacolo disponibile su Youtube, tu parli di un “anelito umano alla ferocia”: da uomo e da padre, che cosa ti spaventa maggiormente dei nostri tempi? Quali sono, invece, le tue speranze?
Ti rispondo con una considerazione del teologo David Maria Turoldo, che aveva insegnato per cinquant’anni nelle scuole. Ebbene, Turoldo faceva notare come alla sua domanda: «Cosa vuoi diventare da grande?», i bambini si affannassero a dare le risposte più disparate…qualcuno diceva di voler fare l’ingegnere, qualcuno il medico, qualche altro l’avvocato…mai nessuno, in cinquant’anni, aveva saputo dare la sola risposta possibile: «Voglio diventare un Uomo» …