“L’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente
fragili imperfetti.” Alessandro D’Avenia
Una San Pietroburgo innevata e freddissima fa da sfondo all’ amicizia fraterna tra Arcadio e Vassia . Sono giovani. Sono colleghi e inquilini. Alla vigilia di Capodanno Vassia confessa all’amico di essere in procinto di sposarsi e soprattutto di essersi perdutamente innamorato di Lisanka.
“Fratello, il mio cuore trabocca di dolcezza, ho l’anima così leggera…», disse Vassia alzandosi e cominciando a camminare nervosamente per la stanza. «Non è vero, dimmi, non è vero! Provi anche tu la stessa sensazione? Saremo sicuramente poveri, ma felici. Questa non è un’illusione; la nostra felicità non è stampata nei libri ma ci sarà nella realtà! …”
Presto però l’euforia fa spazio a un’ansia incontrollabile, quella del futuro. Della possibilità di fallimento. Quella del non essere all’altezza della felicità.
“Si sentiva paralizzato, sconvolto dalla felicità. Credeva di non esserne degno”.
Vassia non riesce a resistere a questi tormenti interiori. Il suo debole cuore non può. Dal disagio al delirio psichico, all’esaurimento nervoso, la strada è breve e tutta in discesa. Arcadio cerca invano di aiutarlo.
Il dramma si conclude nel peggiore dei modi con l’uomo soccombe alla sua stessa felicità.
“Il mio cuore trabocca! Arcadio! Non sono all’altezza di tanta felicità! Me ne rendo conto, lo sento. Come mai proprio a me”.
Chi è abituato a dolore e privazione non sopporta il peso della pienezza della felicità. Abbandonare una condizione consolidata è un trauma, in questo la felicità ferisce. Per tutte quelle volte che il cambiamento ci spaventa, perché non riusciamo a vederlo come possibilità di evoluzione e non nuova ulteriore prova da sostenere.
Il percorso fatto da Vassia è involutivo, in completa antitesi con l’idea di crescita e progressione insita nei passaggi di status sociale. L’assoluta mancanza di autostima lo porta alla perdita di sé. Tutto ci conferma tristemente quanto la natura umana sia oscura, imprevedibile e un assoluto paradosso.
Un testo imperfetto, che non ti aspetteresti con una prosa un po’ acerba ma che mostra la sua grandezza nella descrizione psicologica dei personaggi, cui come sempre nella produzione di Dostoevskij è riservata l’attenzione.
“Vedi, ora sto tremando e non so perché. Ecco che cosa sto cercando di dirti, ho come la sensazione di non essermi capito fino ad ora, sì! Sì e solo da ieri ho imparato a conoscere gli altri. Io, fratello, non ero capace di sentire, non apprezzavo a fondo. Il mio cuore… era di pietra… Spiegami come è stato possibile che io non abbia mai fatto del bene a nessuno al mondo, perché ero incapace di farlo, ho in sovrappiù un aspetto sgradevole… mentre all’opposto ognuno mi ha fatto del bene! Tu per primo: credi che non me ne sia accorto? Ed io ho saputo soltanto tacere, soltanto tacere!”
Un racconto cupo e incombente, denso di pathos.
Il cuore debole per un cardiologo è un cuore con insufficienza cardiaca. Così Vassia è debole alla gioia. Il suo cuore non ha una gittata sufficiente per la felicità. Perché la felicità non sa essere misurata, annulla qualsiasi equilibrio.
Tanto Arcadio è misurato, regolare quanto Vassia è estremo, non si trattiene. Non riesce nemmeno a raccontare tutta quella gioia all’amico e vive questa stessa condizione come fosse una costrizione.
“Sono venuto da te come da un amico, con il cuore colmo, per aprirti la mia anima, per raccontarti la mia felicità”.
È convinto che per lasciar entrare la felicità sia necessario fare spazio. Sia necessario svuotare il proprio cuore manifestando la propria gioia e non ci riesce.
E tutto quel fiume di emozioni straripa, rompe gli argini e tracima in follia.
“Tu sei buono, tanto gentile, ma debole, imperdonabilmente debole”
Così debole da perdere tutto. La gioia, l’amata e l’amico.
Vassia viene ricoverato in ospedale, la follia si è presa tutto, il cuore è stato irrimediabilmente debole.
“E detto questo, Vassia, che durante tutto questo tempo aveva sorriso, ora aveva cercato di interrompere con esclamazione di contentezza lo sfogo dei sentimenti amichevoli, e, in una parola, si era mostrato pieno di brio, d’un tratto si quietò, ammutolì e si mise quasi a correre per la strada. Sembrava che un pensiero grave avesse agghiacciato d’un tratto la sua testa bollente; sembrava che tutto il suo cuore si stringesse.”
Una fibrillazione degli animi tipica dell’autore che comprendiamo in modo proporzionale al livello di inquietudine in cui ci troviamo, in cui il lettore si trova. Dobbiamo sognare e avere ben presenti i nostri demoni interiori, questo forse uno degli insegnamenti più belli dell’autore russo.
Vassia è un uomo troppo sensibile, non in grado di sopportare le pressioni sociali. Anima schiacciata dal mondo.
San Pietroburgo poi, descritta con termini freddi e cupi. Una città che opprime e amplifica il senso di solitudine dei protagonisti. Luogo perfetto nella rappresentazione di un tema centrale per Dostoevskij: l’alienazione dell’individuo.
Attraverso i pensieri e le azioni di Vasilij, l’autore esplora il confine sottile tra felicità e ansia, amore e ossessione, responsabilità e paura del fallimento.
La scrittura è diretta. Dialoghi veloci e descrizioni che in realtà dicono tanto di più sull’instabilità emotiva dei personaggi. Quello il fulcro della storia. Il racconto si caratterizza per uno stile intenso e diretto, con dialoghi vivaci e descrizioni che riflettono l’instabilità emotiva dei protagonisti. In un crescendo emotivo che cattura e coinvolge chiunque approcci a questo testo.
Un cuore debole è un racconto breve ma molto ricco, nulla a che vedere con la profondità della produzione successiva- l’autore non aveva ancora compiuto trent’anni- ma forse il modo migliore per approcciare all’opera di un autore complesso e cogliere tutta l’evoluzione di pensiero, stile e visione del mondo.