La vediamo. Curvata e chiusa in sé. La vediamo la nostra protagonista, che non riesce più a parlare. Davanti a lei un insegnante di greco che sta perdendo la vista. Personaggi senza nome, perché siano universali, che fuggono il mondo e cercano di non abitarlo. Esseri umani che mostrano tutte le loro fragilità e incapacità. Cercano di curare le proprie ferite. Chiusi nella propria solitudine.
“… mentre avanziamo un passo dopo l’altro su una stretta trave da ginnasta, scartando coraggiosamente le conclusioni errate, oltre la rete di sicurezza delle risposte sensate che ci diamo, vediamo ondeggiare il silenzio simile a uno specchio d’acqua livido. Eppure, continuiamo ugualmente a interrogarci e darci delle risposte, anche se i nostri occhi sono immersi nel silenzio, nella quiete minacciosa di quell’acqua livida che sale – e non cessa un istante di salire.”
Se il linguaggio da bambina le aveva fatto una meravigliosa promessa, crescendo la ingabbia, la imprigiona per poi sparire improvvisamente. Il silenzio aveva ostruito lo spazio tra orecchio e cervello e la parola era sparita. Era sparito il ricordo di come usare le labbra e la lingua, la pronuncia di qualsiasi cosa era diventata inaccessibile.
“Agiva senza parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo.”
Come vivere in una bolla, in un tempo immobile. A salvarla la prima volta era stata una parola francese bibliothèque
“Un borbottio incomprensibile era scaturito da un luogo più profondo della lingua e della gola. Non si era resa conto dell’enormità del momento. La paura era ancora indefinita. Il dolore esitava a rivelare i suoi circuiti roventi nel ventre del silenzio. Là dove i segni, il suono e il vago significato di quella parola si incontravano, euforia e colpa bruciavano insieme, lentamente, come la miccia di un esplosivo.”
La magia sinestesica delle parole, la vera potenza del linguaggio.
Poi un giorno era tornato il silenzio. Un silenzio che questa volta sa di vuoto.
“Dietro le labbra, è vuoto come un’arteria dove non scorre più sangue; vuoto come il vano di un ascensore in disuso.”
Così la protagonista torna di nuovo allo studio di una lingua straniera per trovare come riemergere dal silenzio. Sceglie il greco. Lì incontra Lui, il professore. Lui che sta diventando cieco. Lui che sta cadendo nel buio.
Il greco sembra una forma di pensiero ideale per elaborare quella solitudine esistenziale del presente per entrambi.
“I particolari non li distinguo più… e solo grazie alla forma dell’immaginazione i dettagli acquistano vividezza… lascio vagare lo sguardo su un mondo dai contorni completamente sfocati. La gente pensa che, quando si perde la vista, la prima cosa che succede è che si diventi maggiormente sensibili ai suoni, ma non è vero: prima di qualsiasi altra cosa, si inizia a percepire di più lo scorrere del tempo. Sono sempre più sopraffatto dalla sensazione che il tempo attraversi costantemente il mio corpo come il lento, inesorabile fluire di un’enorme massa di materia.”
E nel silenzio lievita il dolore, accresce il disagio.
“Questi due verbi significano ‘soffrire’ e ‘apprendere’. Sono quasi identici, vedete? Qui Socrate ricorre a una sorta di gioco di parole per dirci che si tratta di due atti simili. … per Socrate apprendere significa letteralmente soffrire.”
Quell’ora di greco è in realtà un tempo indefinito, uno spazio neutro in cui mentre lui recita a memoria frasi per non mostrare la propria condizione, lei è alla disperata ricerca di una parola che la salvi dal vuoto del suono in cui è finita.
“Poco per volta la faccia dell’uomo le è diventata familiare. I suoi lineamenti e le sue espressioni, così come il corpo e la postura… ma a questo lei non attribuisce alcun significato. Perché è un cambiamento che non ha mai pensato in parole. … Una volta perse le parole, tutte queste scene si sono trasformate in una serie di frammenti distinti.
Come i pezzetti di carta colorata nel caleidoscopio, che si muovevano insieme creando figure sempre diverse: una miriade di petali freddi, ostinatamente silenziosi. … i frammenti di ricordi si muovono generando immagini. Senza alcun contesto. Senza una coerenza complessiva o un senso, si sparpagliano.”
Siamo nel pieno della krisis, che però non è solo rottura di qualcosa ma apertura. La krisis è l’opportunità di cambiare il proprio destino, di reindirizzare gli eventi. I nostri protagonisti non lo sanno. Non sanno che in quella stanza, in quell’ora di greco si consuma il dramma interiore di entrambi. Non sanno che le loro storie si intrecceranno. Non sanno che le loro solitudini si intrecceranno. Trascorreranno la prima e unica notte insieme solo alla fine. Lui le bacerà la bocca, lei gli accarezzerà gli occhi.
“Non le capita mai di trovarlo strano? Che il nostro corpo abbia palpebre e labbra, che possono essere tappate dall’esterno, ma anche sigillate dall’interno”.
Una scrittura estremamente raffinata e leggera quella di Han Kang, scrittrice sudcoreana vincitrice del Nobel per la letteratura. L’autrice riesce a mostrare la propria matrice poetica in ogni momento. Un testo lirico che pizzica le corde più profonde del nostro sentire.
Lasciarsi portare dalle suggestioni di una prosa poetica e carezzevole, in un romanzo in cui la vulnerabilità non è debolezza ma terreno di incontro. Di possibilità.
La storia si muove in una dimensione intima, avvolta dalla penombra e riempita di silenzi in cui l’unica eco è quella psicologica dei personaggi.
Mai come in questo romanzo la parola mostra la propria forza poietica e la capacità di trasformare il reale. La comunicazione non è altro che un’ elaborazione del sé, di come facciamo esperienza di noi stessi in armonia col mondo che abitiamo e con chi ci circonda. La parola si incarna diventa vita reale, davanti agli occhi dei personaggi e del lettore.
“Passiamo dal mercato a prendere dei mandarini aveva sentito dire alla madre… a quella parole, davanti ai suoi occhi di bambina… erano apparsi di colpo dei bei mandarini arancioni. Si era molto stupita constatando che non erano veri, che non li stava realmente vedendo, anche se apparivano così nitidi.”
L’unione tra la parola e il suo significato più vero, da realtà intima a reale, pronunciata o scritta sono fondamentali in questo testo. Così come la magia evocativa che la parola stessa porta con sé e in sé. La sua capacità di attingere alla nostra sfera emozionale, nonostante spesso siamo solo i destinatari della comunicazione. Ascoltiamo e leggiamo parole che dentro di noi assumono un senso profondo. Per questo nulla è più importante della comunicazione. E per questo dobbiamo sempre ricordarci di usare le parole con attenzione, perché possono essere armi affilate o braccia tese. Dipende da noi.
Qui il vero senso della comunicazione: condivisione.
La percezione dell’altro come legato a me, affine a me, fa luce sul mio cammino. La scoperta di non essere soli diventa la speranza nella luce che può tornare o nella parola che può risuonare ancora.
Un libro sulla solitudine e sulla comunicazione. La solitudine, l’isolamento fisico che deriva da un deficit sensoriale. L’espressione materiale di quell’essersi persi.
Hanno entrambi, per motivi diversi, perso la visione del futuro e del presente. La capacità di rielaborare il reale per portarlo nel futuro. Il disagio si trasforma in una mancanza. Il messaggio di Han Kang è chiaro: non esiste la solitudine assoluta. Esistono gli esseri umani, ognuno con la propria realtà ognuno con la propria solitudine e alcune di queste però si completano a livello empatico. Tanto da potersi fondere, dando vita a qualcosa di nuovo che poco ha a che fare con la solitudine. Esattamente come succede per le parole e per i loro significati o alla luce e alle sue naturali sfumature.