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50 pagine al giorno – Abbandonare un gatto di Haruki Murakami

Scritto da Giulia Carlucci

“Ciò che i genitori m’hanno detto d’essere in principio, questo io sono: e nient’altro. E nelle istruzioni dei genitori sono contenute le istruzioni dei genitori dei genitori alla loro volta tramandate di genitore in genitore in un’interminabile catena d’obbedienza.” Italo Calvino

Difficile che Murakami si racconti. O meglio difficile che nei suoi romanzi si ritrovi palesemente qualche riferimento a una vita familiare e intima.  Fino a qui.
In questo piccolo gioiello, abilmente illustrato da Emiliano Ponzi, Murakami si racconta e per farlo racconta del padre. Parte da un aneddoto familiare, quello che dà il titolo all’opera, per poi seguire il flusso di ricordi, connessioni e riflessioni.
Una gatta che non si sa per quale ragione suo padre decide di abbandonare, ma ritrova in casa al ritorno.
Dalle sue parole apprendiamo che il padre era riuscito a sopravvivere alla confusione e alla povertà del secondo dopoguerra, ma per arrivare a questo aveva dovuto passare anni di ristrettezze economiche, fame e ostilità.
Ogni evento narrato è memoria del passato che prende forma, ma allo stesso tempo è un fluire presente. Ogni azione fatta, anche da altri, ha risvolti attuali sulla nostra vita. E quanto conta questa vita ?“Ognuno di noi è una delle innumerevoli, anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura. Una goccia che ha una sua individualità, ma è sostituibile. Eppure quella goccia ha i suoi pensieri, la sua storia e il dovere di continuarla. Non lo dobbiamo dimenticare. Anche se si perde la propria individualità per essere inglobati e annullati in qualche massa. Anzi, dovrei dire proprio perché si è inglobati in una massa”.Guerra, traumi, rapporti familiari, spiritualità  e poesia sono il tessuto del primo memoir dell’autore. Il racconto della vita del padre è tratteggiato con la delicatezza cui ci ha abituati, ma al contempo è intriso di malinconia.

“È così che funzionano le relazioni umane, è così che funziona la storia.”

Ci sono le tante cose non dette quando avrebbe dovuto. La frustrazione di un figlio che non può più fare domande, il pensiero di aver deluso le aspettative paterne, e tutte quelle sensazioni che costellano l’anima di chi ha perso un genitore.
Il rimpianto di quando pensiamo che ci sia tutto il tempo per sistemare le cose, ma la vita ci fa capire che non è così. Che basta un attimo e quelle parole restano per sempre confinate nella sfera del pensiero, dove assumono un peso specifico decisamente più importante.
La ricerca del padre è al centro della memoria.
Murakami riflette, si interroga. Naturale quando si raggiunge l’età dei bilanci. Quando la strada che hai alle spalle è tanta da farti intravederne la fine davanti.
Raccontare del padre è raccontare di sé. Cercare di capirlo attraverso i frammenti della memoria, è cercare di capire se stessi. La riflessione sulla distanza emotiva tra genitori e figli, sulle scelte fatte liberamente e su quelle imposte, è la strada da percorrere per conoscere e comprendere non solo chi abbiamo vicino ma anche e soprattutto noi stessi.
Lo stile è asciutto, ma quanta poesia si cela dietro questa semplicità! Uno scritto breve ma molto intenso, introspettivo, magnetico, riflessivo.  Murakami ci ricorda chi e cosa siamo: niente più che la somma del nostro essere stati, la somma del nostro aver vissuto, del nostro essere caduti e del nostro esserci rialzati.

“È l’accumularsi di queste piccole cose che mi ha formato, che mi ha reso la persona che sono ora.”

In buona sostanza Abbandonare un gatto è un’opera semplice e autentica, ma estremamente arricchente per la sua capacità di trattare temi universali come la famiglia, la memoria e l’eredità emotiva, attraverso il riflesso delle esperienze personali dell’autore.

 

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Giulia Carlucci

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