La soffitta

The Cure – Wish

Scritto da Marco Restelli

con Wish riuscirono a trovare la sintesi quasi perfetta della loro discografia, dando spazio a tutte le anime della band

Era il 1992 e i Cure erano attesi al varco, tre anni dopo la pubblicazione di quello che a tutt’oggi è considerato il loro principale capolavoro: Disintegration. Quel disco stupendo era totalmente dark e non lasciava spazio ad episodi pop veri e propri, come invece era avvenuto negli album successivi a Pornography, era quindi logico attendersi che col lavoro successivo il front man Robert Smith e soci avrebbero cambiato in qualche modo rotta. In effetti, con Wish riuscirono a trovare la sintesi quasi perfetta della loro discografia, dando spazio a tutte le anime della band e regalando un mood piuttosto eterogeneo.
Il viaggio si apre con il rock duro di Open (nomen omen, potremmo dire, così come la finale End), con tutte e tre le chitarre a disegnare dei soundscapes ipnotici, pieni di riverberi e distorsioni. Perfetto l’abbinamento con il tema toccato dalla canzone, certamente non nuovo ai Cure, che è l’alienazione totale di un uomo costretto dalle circostanze a incontrare persone in un bar, a parlare con loro, mentre la sua testa è da tutt’altra parte e piano piano crede quasi di impazzire.
Con High, che fu anche il singolo di lancio, i suoni tronano un po’ a quelli di Kiss Me Kiss Me Kiss Me, e l’approccio si fa più radiofonico. Personalmente la considero incantevole per i suoi repentini cambi di melodia e perché in fondo era il primo brano “luminoso” che arrivava dopo tanta (seppur sublime) oscurità.
Buio che non tarda ad arrivare – sia nella musica che nel testo – con la malinconica Apart, ballata dark fra le mie preferite, che parla essenzialmente di una separazione, vissuta in maniera devastante da parte di una donna la quale spera ancora nel suo cuore, invano, di poter sentire il suo uomo dirle che l’ama. Lui, invece, spera solo che lei possa un giorno capirlo e perdonarlo. Dopo la lacerante cavalcata elettrica di From the edge of the deep green seaquasi otto minuti di ritmo incalzante da togliere il fiato – sia apre un trittico pop del quale fa parte quella Friday I’m in love che trovò – a ragione – maggior fortuna, sia su MTV che nelle radio. Forse la canzone più conosciuta dai “non fan” del gruppo, insieme a In between days e Just like heaven.
Per ovvi motivi di sintesi, mi limito a citare ancora solo la morbida To wish impossible things (dalla quale verosimilmente prende il titolo l’album), perché è di una dolcezza infinita, soprattutto grazie all’inedito suono della viola di Kate Wilkinson, che riesce a dilatare quell’inesorabile senso di disillusione che la fine di un rapporto d’amore porta con sé. Concludo evidenziando il perché nella nostra rubrica la Soffitta abbiamo voluto proporvi questo disco: crediamo che dopo 26 anni sia un po’ caduto in un parziale oblio, mentre meriterebbe di essere annoverato fra i più convincenti album dei Cure che, quest’anno, celebrano ben 40 anni di carriera.

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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