Recensioni

POKER SOUND: PEARL JAM

Scritto da Marco Restelli

Rabbia, alienazione, lotta contro i potenti sono i temi principali dei Pearl Jam, il tutto filtrato attraverso montagne di chitarre elettriche

Presentiamo oggi una nuova rubrica di SOund36 dal titolo Poker Sound.
L’idea è quella di scegliere di volta in volta un singolo artista o una band con una carriera discografica importante – sia a livello quantitativo che qualitativo – presentando una monografia attraverso i quattro dischi, non necessariamente più belli ma che siano rappresentativi delle varie epoche. Per forza di cose, ognuna delle “carte del Poker” sarà più sintetica rispetto a una vera e propria recensione.
Per iniziare, abbiamo scelto una grande band, i Pearl Jam che all’inizio degli anni 90, insieme a grandi gruppi come Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e altre della zona di Seattle misero il proprio timbro nella storia del rock contribuendo a creare, di fatto, un nuovo genere: il Grunge. Rabbia, alienazione, lotta contro i potenti sono i temi principali, il tutto filtrato attraverso montagne di chitarre elettriche – più vicine al punk che all’heavy metal – e rappresentato da frontman molto carismatici, decisamente più dell’usuale. È triste dirlo, ma a distanza di 30 anni l’unico di loro rimasto in vita è proprio Eddie Vedder.
Anche se i Pearl Jam raramente hanno deluso i propri fan in studio, il massimo della loro forza espressiva l’hanno mostrata sul palco: ogni serata presentano una lunga e differente set list, con emozionanti concerti fiume. Ogni membro della band a partire dall’accoppiata di chitarristi Stone Gossard / Mike McCready, fino al bassista Jeff Ament ha un talento indiscusso e una spiccata personalità tanto da aver partecipato, negli anni, a progetti paralleli per dar spazio alla propria creatività.
Dei dieci album fino ad ora pubblicati quelli che seguono sono per noi quelli che meglio servono a orientarsi nella loro discografia.

1991 TEN: il capolavoro

Non sono molti gli artisti che hanno iniziato la propria carriera con l’album più bello, ma sia il pubblico sia la critica ritengono che questo sia il caso della band di Seattle visto l’esordio atomico con Ten. In questo splendido lavoro non esistono filler: ogni pezzo sarebbe potuto essere un singolo, anche se in realtà ne uscirono solo quattro: Alive (Inno portabandiera del disco, e trascinante dal vivo), Jeremy (ispirata dal suicidio di un giovane americano a scuola), Even Flow (trascinante brano grunge) e la più onirica Oceans. L’episodio che però ha verosimilmente sempre toccato nel profondo tutti gli amanti dei Pearl Jam è la ballata Black, accompagnata da un piano a dir poco epico che ancora oggi fa venire i brividi. Le devastanti sferragliate di Why Go e Porch incorniciano un disco “da 110 e lode con bacio accademico” che resterà per sempre nella storia del rock insieme ai capolavori del medesimo genere: Nevermind dei Niravana e Superunknown dei Soundgarden.

1996 NO CODE : l’album della svolta

Dopo altri due grandi album come Vs (1993) e Vitalogy (1994) nei quali i Pearl jam svilupparono quanto già mostrato con Ten, arrivò il punto di svolta. La band pur continuando col produttore Brendan O’Brian volle cambiare e incise un disco più cupo che duro, che in qualche modo spiazzò una parte dei fan. L’atmosfera generale è appunto meno rabbiosa, più introspettiva e ai suoni elettrici (l’immancabile tempesta punk rock di Habit e le raffiche di Red Mosquito) si aggiungono più spesso di prima anche quelli acustici come la rasserenante Off he goes o la intrigante ballata finale Around the bend. Alcune melodie risultano più complesse con pezzi come l’iniziale Sometimes o Present tense che parte come una sorta di mantra ipnotico per poi esplodere nel finale. Il tutto diede la possibilità di apprezzare la versatilità dell’affascinante voce di Eddie e, anche se commercialmente diede risultati inferiori ai primi tre, è ancora apprezzato proprio per quello che ha rappresentato: la dimostrazione che i ragazzi potevano distaccarsi da ciò che li aveva resi famosi, senza per questo smettere di emozionare, ancorché in uno stile diverso. In fin dei conti ebbero ragione loro.

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1998 YIELD: la maturità mainstream

Avendo ormai sostanzialmente detto al mondo con No Code di non volersi fare ingabbiare solo nel Grunge, ormai considerato come un movimento esaurito a tutti gli effetti soprattutto dolo la morte di Kurt Cobain, i Pearl Jam pubblicarono l’album Yield che potrebbe essere considerato come la sintesi del loro nuovo sound mainstream definitivo, con chiari riferimenti alle origini (l’accoppiata iniziale Brain of Jay e Faithful), ma anche proiettato verso un futuro altrettanto glorioso. Questo è un album maturo e senza etichette, con brani decisamente rock come Given to fly – un crescendo di emozioni da ascoltare in auto con il finestrino basso, respirando la vita a pieni polmoni – o più profondi come la lista dei desideri da brividi di Wishlist (uno dei miei preferiti di sempre). La ballata elettro acustica Low light e la più scoppiettante In hiding sono altri due pezzi immancabili di questo loro splendido puzzle e danno perfettamente l’idea della qualità ormai raggiunta dal gruppo che non per niente vendette milioni di copie.

2009 BACKSPACER: il meglio dei nostri giorni

Album dopo album i Pearl Jam continuarono a crescere anche se con alcuni lavori più convincenti come Binaural (2000) – in parte con atmosfere simili a No Code – e altri un po’ meno come Riot Act (2002) e Pearl Jam (2006), ma a mio avviso comunque più che sufficienti. Eddie Vedder nel 2009 veniva dalla sua ottima prima prova solista, con la quale aveva composto una colonna sonora memorabile per il bellissimo Into the wild del suo amico Sean Penn e parte dell’energia positiva di questa esperienza riuscì a confluire nello studio di registrazione che partorì Backspacer.
Oltre la scatenata The Fixer che fu anche il singolo apripista, questo album contiene due ballate strepitose come Just Breath (la cui musica è presa proprio dalla strumentale Tuolumne di Into the wild) e la tristissima The End su un uomo che sta per morire. Amongst the waves è in qualche modo l’omaggio all’amato mondo del surf da parte del frontman, ricco di riferimenti all’amore e alla vita, mentre Unthought known è un pezzo che sembra innocuo, ma progressivamente ti coinvolge fino a spiazzarti definitivamente. Con Backspacer nel 2009 dimostrarono a tutti che erano ancora capaci di fare dischi di altissimo livello e probabilmente ancora ne sono in grado.

I Pearl Jam pubblicheranno ancora Lightning Bolt nel 2013 (buon album, anche se forse inferiore alle sempre elevatissime aspettative) e attualmente sono in studio di registrazione per un nuovo disco che dovrebbe uscire entro la fine dell’anno.

Il disco Live immancabile: Live at Benaroya hall – 2004 (Concerto fiume acustico)

La chicca: Lost Dogs – 2003 (Compilation di inediti)

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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