Interviste

Patrizia Laquidara, Intervista

Scritto da Claudia Erba

Per tutta la vita ho cercato di trovare casa in me stessa

Ad undici anni di distanza da “Funambola” e sette da “Il canto dell’Anguana” (che le è valso la “Targa Tenco 2011”, sezione canto dialettale) Patrizia Laquidara torna a far sentire la propria voce con “C’è qui qualcosa che ti riguarda”, un progetto indipendente, autoprodotto e finanziato anche attraverso un’operazione di crowfunding che, da subito, ha superato il doppio della cifra di partenza.
Patrizia Laquidara si muove sulla linea di confine tra metafisica e sostanza terrigna del quotidiano, memorie del sottosuolo e altitudini siderali; il suo è un registro spaziale capace di inglobare diari routinari in fiabe cosmiche, sconvolgere i dettami del tempo, traghettare la prosa casalinga nell’avamposto del futuro.
“C’è qui qualcosa che ti riguarda”, sospeso tra avanguardia e rigore quasi classico, disegna un perimetro poetico polifonico, dove albergano grido e silenzio, sconfitta e fierezza, buio e incanto.

Echi blues e matrice cantautorale europea, fascinazioni carioca, tradizione folk vicentina, suggestioni anglo-giamaicane, perfino voci kecak del sud-est asiatico si intrecciano nel suo canzoniere, sfociando talvolta in una world music illuminata.
Mi sembra che la sua musica sia fortemente legata alla perenne rinegoziazione/trasformazione di un’identità collettiva, sbaglio?Non sbagli, soprattutto in questo disco, la cui produzione artistica è di Alfonso Santimone, l’intento è stato quello di mescolare, trasformare, elaborare materiale musicale per rigettarlo fuori come nuovo. Questo elemento- valore trasformativo si ritrova anche in molti testi dell’album, dove quasi sempre è presente il tema della rinascita, come fossimo davanti a un manifesto alchemico.

Lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård, ne “La Pioggia deve cadere” ha scritto che ci sono soltanto -da sempre e senza che nessuna di esse possa essere scelta- due forme di esistenza, quella legata a un posto e quella che non lo è. E Lei? sente di appartenere ad un luogo in particolare?
No. Non sento l’affezione a un luogo particolare. Per tutta la vita ho solo cercato di trovare casa in me stessa. Cosa difficile da ottenere per me, ma ci sto riuscendo.

Una volta, chiacchierando della sua musica, mi ha detto: “Non mi sono mai chiesta come fare una cosa per perseguire uno scopo.” E’ cambiato qualcosa, nel frattempo?
Sì, è cambiato qualcosa. Ho cercato nel frattempo di dare più struttura e direzione al mio lavoro. Di darmi obiettivi più chiari e tentare di raggiungerli anche con una dose di ragionamenti analitici e mini-strategie.
Questo perché col passare del tempo si ha voglia forse di dosare le proprie forze e di occuparsi di cose davvero importanti, di vedere i risultati dei propri sforzi.

Le è capitato di domandarsi, come il protagonista che dà il titolo all’opera di Pfitzer -“Palestrina”- “a che scopo?”
E’ una domanda che mi pongo molte volte ultimamente. Ho speso la sensazione di vivere in una società e un momento storico che rinnega l’arte, che non ha bisogno dell’arte, intesa come valore spirituale, terapeutico, ricerca profonda di se stessi e dell’altro, del nostro stare al mondo.
Poi, dopo i concerti, quando le persone si avvicinano, mi scrivono, leggo nei loro occhi e nei commenti il bisogno di nutrirsi di bellezza, di stupore, di coraggio e mi dico: “Andiamo avanti”.
Sento il mio lavoro come una vocazione ma a volte anche come un dovere. Il dovere di fare ciò per cui siamo nati e che ci fa stare bene. Ecco, stare bene, soprattutto, per contribuire a rendere un pò migliore questo mondo.

“Bello Mondo (Ti ho vista ieri)” richiama il titolo di una poesia di Mariangela Gualtieri (con la quale lei sembra condividere, per dirla con Bianca Maria Sacchetti, “questa attitudine a coniugare le punte estreme, il cielo e la terra, che rende la scrittura della Gualtieri sublime, riecheggiando l’origine etimologica dell’aggettivo sublime, “sub-limen“, ovvero sotto la soglia”). Come mai questa scelta?
Perché amo la poesia di Mariangela Gualtieri (che tra l’altro quest’anno, probabilmente, sarà ospite di un festival, “Il canto della Sisilla”, di cui ho la direzione artistica).
Quando l’ascolto nei suoi riti sonori, la leggo nei suoi libri, mi avvicino al senso del sacro, del rito. Come hai detto tu, riesco a ritrovare quel filo che collega il cielo con la terra, un cordone ombelicale lunghissimo tra l’umano e il divino. Un divino che è natura, mistero, universo ma che è anche carne. Infatti non trovo la poesia della Gualtieri apollinea, sento dietro alle sue parole la fatica, il dolore superato, la sfida con se stessi, la gioia dello stare al mondo, oltre alla contemplazione. E la mia canzone, “Bello mondo”, nasce proprio da questa “contemplazione”: è bello essere qui, al mondo, c’è stupore in tutto. Nonostante tutto.

Nel suo ultimo lavoro, “C’è qui qualcosa che ti riguarda” sembrano trovare voce l’inerenza e l’altrove…si tratta di due sfere nettamente separate o c’è spazio per una sorta di “Mitologia del quotidiano”?
In una società che è soprattutto immagine, aveva ragione Platone a condannare ciò che viene raccontato, in forma visiva, del mondo? Poter raccontare il quotidiano oltre ciò che è l’apparenza, investire il quotidiano e l’inerente di mito, sogno, mistero è un compito non sempre facile, ma una sfida a cui è bello poter rispondere.

Ringraziamo Sara Colantonio

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Claudia Erba

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