Recensioni

Lenny Kravitz – Raise Vibration

Scritto da Marco Restelli

Questo nuovo album potrebbe ben essere considerato un po’ come la summa della discografia di Kravitz, dando spazio a tutte le sue varie anime

Quando prima dell’estate ho dato un’occhiata ai dischi in uscita a settembre, mese generalmente generoso di interessanti novità mainstream, l’occhio è subito caduto su Raise Vibration. Si tratta dell’undicesimo disco della lunga carriera di Lenny Kravitz, artista che ho avuto la fortuna di seguire sin dagli esordi con i suoi strepitosi primi tre dischi che furono una ventata di aria fresca a cavallo fra la fine degli anni 80 e l’inizio della decade successiva. Il pregio dell’artista newyorkese a mio avviso è sempre stato quello di guardare al passato, alla gloriosa musica rock degli anni 70, ma di non volerla semplicemente imitare o peggio ancora scimmiottare, ma filtrare attraverso il suo indiscusso talento di cantautore e polistrumentista navigato. Disco dopo disco ha poi adornato il proprio sound con elementi di modernità, non negando l’ingresso dell’elettronica, ma sempre dosandola e accompagnandola agli strumenti tradizionali.
Questo nuovo album potrebbe ben essere considerato un po’ come la summa della discografia di Kravitz, dando spazio a tutte le sue varie anime, senza alcun limite.
Le canzoni, varie nello stile e nel ritmo, ci sono eccome e in più di un episodio piazza la zampata vincente. Già il singolo Low, uscito da qualche mese, aveva un po’ prefigurato l’estetica di Raise Vibration e lasciato ben sperare, quindi possiamo senza dubbio parlare di promesse mantenute. Fra queste spicca la doppietta di ballate: la prima è Johnny Cash, che lungi dall’essere un’ode al celebre cantante country, inizia con un omaggio chitarristico degno del miglior Prince per poi lanciarsi in una languida melodia, con tanto di archi, che conquista. La seconda Here to love è essenzialmente piano e voce e recupera il suo approccio più soul, anche nei temi visto che si tratta di un pezzo dedicato all’amore universale sulla scia di grandi artisti del genere come Stevie Wonder, George Michael o Marvin Gaye.
It’s enough – perfetta fusione fra sintetizzatori, percussioni e il basso finalmente in primo piano – è probabilmente il mio pezzo preferito (di quasi 8 minuti!!) e mi ricorda piacevolmente l’approccio funky che Lenny aveva scelto nel disco Black and white America che, quando uscì nel 2011, consumai letteralmente. Un po’ come quando in cucina si mischiano tanti ingredienti (ci sono anche dei fiati nella coda finale) e senza sapere neanche come esce fuori un piatto nuovo prelibato.
5 More days till’summer è fresca come il suo titolo, radiofonica, trascinante e potrebbe anche essere scelta come prossimo singolo. Anche qui l’assolo di chitarra elettrica nel mezzo è il perfetto corollario fra pop e rock di cui parlavo nell’introduzione.
The Majesty of love è ancora funky puro, classe cristallina con un sax ipnotico che sarebbe la perfetta colonna sonora per un viaggio in taxi, notturno, che attraversa la Grande Mela.
Chiudo citando ancora un brano speciale come Ride, cullante ballata dall’anima acustica, che conferma quanto di buono già sottolineato fino ad ora. Lenny Kravitz non ha nessuna intenzione di smettere di fare grande musica per la gioia di tutti coloro che lo aspettano con curiosità e ammirazione.

About the author

Marco Restelli

Originario di Latina, ma trapiantato ormai stabilmente a Bruxelles. Collaboro con diversi siti musicali. Collezionista di dischi dai primi anni '80, ascolto praticamente ogni tipo di musica, distinguendo solo quella che mi emoziona da tutto il resto.
In progetto: l'attività di promoter di eventi live di artisti emergenti nel Benelux. Sono orgogliosamente cattolico, ma ritengo che la tolleranza sia alla base delle relazioni umane. Se dovessi salvare un solo disco, fra i miei 3500, sceglierei "Older" di George Michael. La mia più grande passione, oltre alla musica: la mia famiglia e i miei tre bambini.

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