Interviste

Claudio Cataldi

Claudio Cataldi si racconta a SOund36

Claudio Cataldi si racconta a SOund36 in una intervista esclusiva.

Claudio raccontaci dei tuoi primi passi nella musica
Ho iniziato a suonare in gruppo ai tempi del liceo. Un anno, dopo le vacanze estive torno a scuola e scopro che un mio amico aveva comprato una batteria, e così ci mettiamo a suonare insieme, pur essendo entrambi non dico alle prime armi, ma quasi. Mettiamo su una band e la chiamiamo Resthouse, in onore della casa di riposo di fronte la quale c’era la nostra “sala prove” – che altro non era se non la casa del batterista. Facevamo per lo più cover anni ’90, ma anche i miei primi brani: avevo iniziato a scrivere musica l’estate prima, armato di cassette e block-notes. Molte di quelle cose naturalmente erano abbastanza ingenue, però avevano una certa purezza che poi, con gli anni, inevitabilmente si perde. Con questo gruppo ho anche iniziato a suonare dal vivo, prima in feste private e nelle scuole, poi anche in veri e propri locali. Dopo meno di un anno il gruppo si sciolse. Da allora ho sempre messo su formazioni in cui scrivevo del tutto o in parte i brani. L’esperienza mi è servita anche per approcciarmi da subito con la dimensione live.
Un anno dopo esplose il fenomeno dell’home recording, e tutti si misero a realizzare delle pessime ma sincere demo, me compreso. Col mio gruppo successivo ho iniziato ad esplorare le possibilità della registrazione e ad avere i primi contatti con il mondo delle webzine e delle recensioni.

C’è un’idea comune che lega le canzoni dei tuoi EP?
Sia Ghost Town che Sleepy River sono frutto di una selezione, alla ricerca di una ben precisa immagine da trasmettere all’ascoltatore. La selezione non l’ho fatta solo basandomi su criteri qualitativi, ma soprattutto in base all’atmosfera finale che volevo creare. Ghost Town viene fuori da una forte esigenza di fuga dalla musica intesa come pesantezza e come accumulo di orpelli e barocchismi. Volevo recuperare semplicità e leggerezza, la stessa leggerezza che avevo quando ho iniziato a fare musica. Avevo in testa immagini di deserti e di case abbandonate e diroccate al sole. Analogamente i testi riflettono questo stato d’animo e parlano di contatto con la terra, di girovagare senza meta, di immergersi nella meditazione. Sleepy River nasce da un’esigenza diversa, da una ricerca di ricchezza – ricco nel senso di rigoglioso, come può esserlo un bosco. Stavolta ho cercato di aggiungere colori alla tavolozza ed allo stesso tempo di realizzare un lavoro omogeneo, che scorresse fluido dall’inizio alla fine, come il fiume del titolo. Anche stavolta i testi hanno seguito la musica e secondo me sono più chiari, imperniati maggiormente su sentimenti e rapporti umani. Diciamo che Ghost Town esprime un senso di solitudine e ricerca interiore, mentre Sleepy River esprime una volontà di protezione riguardo a ciò che si ha caro.

Claudio CataldiCosa ti ha dato la tua terra d’origine musicalmente parlando?
Come quasi tutti i miei coetanei cresciuti in città e bombardati dalla televisione ho poco contatto con la musica popolare siciliana, che da noi è una faccenda che si studia all’università ed è molto lontana dalla cultura media e bassa.
Bisogna diffidare di chi parla di “folk siciliano”, quasi sempre non sa quello che dice. Nonostante questo, la mia terra mi ha dato tantissimo in termini di immagini.
In Sicilia convivono spinta verso la modernità ed arretratezza secolare, alienazione e solidità nei rapporti umani, paesaggi naturali ed inquinamento selvaggio, solitudine e folla. Un’autostrada in mezzo alla Sicilia è l’anello di congiunzione tra la Route 66 e uno stradone per i muli: il massimo dell’ispirazione!
So che quel che faccio suona molto anglosassone, ma se non fossi nato in Sicilia tutto sarebbe uscito davvero diverso. È una sorta di polvere che ti si poggia addosso e permea tutto ciò che fai.

Ci parli della tua collaborazione con la Wool Shop Productions?
Conosco Peppe Mistretta da cinque o sei anni. Ai tempi suonavo in un gruppo di ispirazione post-punk, i Four A.M. Eternal, e lui era uno dei pochi appassionati del genere, così facemmo amicizia. Qualche anno dopo, un bel pomeriggio mi telefonò dicendomi che aveva intenzione di aprire una bedroom label per produrre musica che avesse un certo tipo d’atmosfera, per così dire, autunnale. Cantautorato, twee pop, shoegaze, acid folk, insomma tutte robe che si adattano bene ad una coperta di lana. La sua idea era unire questo sound a packaging artigianali, fatti con materiali riciclati o riciclabili. Mi chiese di inaugurare il catalogo con un mio disco, e io fui davvero felice della cosa. Qualche giorno dopo mi iniziò a portare delle prove per l’artwork. Si trattava di lavori fatti con carta, pezzi di legno e filamenti di lana, roba da restare a bocca aperta. A tutt’oggi, circa due anni e dodici uscite dopo, continua a fare questi lavori a mano con la carta, il cartone, la stoffa, la lana, con il legno, dipingendo, ritagliando e assemblando ogni singola copia. Anche ora che lo contattano da mezza Europa e dagli Stati Uniti per avere i dischi o per sottoporgli demo lui non ha cambiato di una virgola il suo approccio. È un lavoro che ammiro molto, perché fatto con vera passione e non con la calcolatrice in mano.

Cosa rappresenta per te il momento del live?
Suono dal vivo, anche se ultimamente meno spesso di prima. Negli ultimi tempi mi sono esibito solamente con voce e chitarra, facendo brevi set, per cercare un maggiore contatto con chi ascolta. Diciamo che ne ho approfittato anche per educare me stesso ad un rapporto più diretto col pubblico, perché di mio sono abbastanza schivo. Per l’uscita di Sleepy River penso di metter su una formazione più organica e fare set un po’ più estesi. Non ho in programma di rimettermi a registrare a breve, perciò penso che mi dedicherò ai live per ora. I live, per me, sono sempre una buona occasione per provare forti sensazioni. Dai concerti esco sempre scosso, in positivo o in negativo: assurdamente felice o terribilmente di malumore, a seconda di come è andata. Cerco di creare un’atmosfera sospesa, una cosa abbastanza fragile, a cui bisogna dedicare molta attenzione e cure.

About the author

Annalisa Nicastro

Mi riconosco molto nella definizione di “anarchica disciplinata” che qualcuno mi ha suggerito, un’anarchica disciplinata che crede nel valore delle parole. Credo, sempre e ancora, che un pezzetto di carta possa creare effettivamente un (nuovo) Mondo. Tra le esperienze lavorative che porterò sempre con me ci sono il mio lavoro di corrispondente per l’ANSA di Berlino e le mie collaborazioni con Leggere: Tutti e Ulisse di Alitalia.
Mi piacciono le piccole cose e le persone che fanno queste piccole cose con amore e passione. E in ultimo vorrei dire che mica sono matta, ma solo pazza. Pazza di gioia.

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